Dodici tesi su Wikileaks – di Geert Lovink e Patrice Riemens

Dopo aver dato un nostro contributo di decostruzione ed analisi dell’oggetto Wikileaks, pubblichiamo la traduzione di “Dodici tesi su Wikileaks” un testo di Geert Lovink e Patrice Riemens, apparso nella sua prima versione sulla mailing list “Nettime” nell’agosto di quest’anno ed ampliato a ridosso dell’esplosione del Cablegate. Crediamo sia una riflessione interessante  per allargare gli orizzonti del dibattito su quella che sembra essere una delle fratture più significative del panorama mediatico globale degli ultimi anni. Buona lettura!

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“Cosa penso di WikiLeaks? Penso che sarebbe una buona idea!” (ripreso dalla famosa battuta del Mahatma Gandhi sulla “Civiltà Occidentale”)

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Rivelazioni e fughe di notizie sono state una caratteristica di tutte le epoche, tuttavia nessun gruppo non statale o non para-aziendale prima d’ora ha fatto nulla al livello di quanto WikiLeaks sia riuscita a fare, prima con il video “collateral murder”, poi con gli “Afghan War Logs”, ed ora con il “Cablegate”. Ci sembra di aver raggiunto il momento in cui il salto quantitativo si trasforma nel salto qualitativo. Quando WikiLeaks ha raggiunto il mainstream nei primi mesi del 2010, questo non era ancora dato. Da un lato, le “colossali” rivelazioni di WikiLeaks possono essere spiegate come la conseguenza della spettacolare diffusione dell’utilizzo dell’IT, assieme alla spettacolare discesa dei suoi costi, inclusi quelli di storage di milioni di documenti. Un altro fattore di contributo è il fatto che tenere al sicuro segreti statali ed aziendali – per non parlare di quelli privati – è divenuto difficile in un’epoca di riproducibilità e disseminazione istantanee. WikiLeaks diviene simbolica di una trasformazione nella “società dell’informazione” in generale, detenendo uno specchio di cose a venire. Così, mentre ci si può rivolgere a Wikileaks come ad un progetto (politico) e sottoporla a critica per il proprio modus operandi, la si può anche vedere come la fase “pilota” di un’evoluzione verso una cultura assai più generalizzata di rivelazione anarchica, oltre la tradizionale politica dell’openness e della trasparenza. Prosegui la lettura »

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La polizia ci spia su Facebook? Tanto stupore per nulla

Stupirsi del fatto che la polizia usi Facebook per spiare la attività degli utenti in rete, è un po’ come stupirsi del fatto che all’ombra dei palazzi romani e delle emittenti televisive milanesi, gli esponenti del potere si dilettino a fare “bunga bunga” con giovani donzelle più o meno compiacenti. Solo i giornalisti del gruppo editoriale “L’Espresso” possono pensare che una notizia di questo genere abbia rilevanza o presenti davvero il benché minimo carattere di novità.

Minchia commissà! Ci stanno spiando su Feisbuc!

L’articolo firmato da Giorgio Florian (“La polizia ci spia su Facebook”) che tanto clamore ha destato negli ultimi due giorni, a nostro modo di vedere, è attraversata da una linea narrativa di una banalità disarmante, in cui la storiella dell’orso viene venduta come la rivelazione dell’anno.

Provando anche a dare una lettura della smentita a tempo record della polizia postale, fatta a mezzo ANSA alle ore 16.30 di giovedì, vediamo quali possono essere i piani su cui la questione va affrontata.

Il primo è quello più ovvio che, dal basso della nostra esperienza militante, abbiamo già abbondantemente sedimentato nel bagaglio delle conoscenze quotidiane e sperimentato sulla nostra pelle. L’abuso degli strumenti digitali nelle indagini di polizia è qualcosa che nasce con il cellulare, ma che ha probabilmente origini molto più antiche ed analogiche. È semplicemente ovvio che la polizia nella sua opera costante di sorveglianza sui soggetti “devianti” abbia la possibilità di fare (e faccia effettivamente) largo uso di intercettazioni (telefoniche, ambientali ed informatiche) non autorizzate in alcun modo dalla magistratura. Chiedetelo a qualsiasi avvocato un pò scafato e ve lo confermerà senza troppe remore. Se fate caso alle parole di Antonio Apruzzese, direttore centrale della polizia postale, noterete che il fatto in se non viene assolutamente negato. Semplicemente si attesta che i cybercop – bontà loro – si muovono «sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale». Il che però non significa che intercettazioni prive di valore probatorio in un’aula di tribunale (ovvero non utilizzabili nella formazione della prova) non possano essere fruttuosamente impiegate in attività di “prevenzione” e repressione. Prosegui la lettura »

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Mani tese e pugni chiusi

Sabato 11 settembre “Il Resto del Carlino” ha aperto l’edizione locale con l’ennesimo scoop sensazionalistico della campagna “Diamoci una mano” sull’emergenza writing. A dire la verità il concetto di scoop ha una connotazione eccessivamente meritoria: “squallido” e “servizietto” sono due termini che forse meglio si prestano per definire le paginette vergate dalla “Torquemada de noantri” Federica Andolfi.

Il succo della notizia è questo: un cavaliere della rete solitario (ovvero senza amici) che per comodità chiameremo “Federica Andolfi”, avrebbe deciso di dare un senso alle sue grigie giornate (e sopratutto bianche nottate), ricostruendo l’identità anagrafica di alcuni writer attivi sul territorio bolognese. Tali informazioni sarebbero state impacchettate in un dossier di 250 «elementi probanti in formato jpeg» (cioè 250 immagini scaricate da Facebook, Flickr e Myspace), consegnato in questura dall’ex forzanovista Daniele Corticelli, capobastone della temibile organizzazione “Bologna Capitale”. Giunto in piazza Galilei sbracciando pur di dare al suo oscuro partituncolo 20 righe di notorietà, davanti ai flash dei fotografi (l’unico presente era quello della solita Federica Andolfi) ha dichiarato con sfumati toni politologici: «Mo ‘sti cornuti li teniamo ben per le palle. Noi cittadini di etnia bolognese vogliamo il sangue. Ora la polizia sa chi sono e deve picchiare duro». E poi, a degno coronamento del suo inappuntabile ragionamento, si è asciugato la bava alla bocca ed ha fatto un bel rutto soddisfatto.

In attesa che il meritato Pulitzer venga attribuito a Federica non sembra una cattiva idea quella di mettere i puntini sulle i, e chetare i bollenti spiriti del popolino. Prosegui la lettura »

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Le nonne di Wired Italia guardano la Google Tv

O “Dell’intramontabile spirito della New Economy”

Che succede in questi giorni?

Quisquilie: sono in atto le prove generali per affossare il principio di net-neutrality che fino ad oggi ha, più o meno, governato la rete. L’idea è quella di creare un’ Internet a due corsie: su quella più veloce viaggiano contenuti commerciali ed a pagamento mentre sui doppini del rame si fa transitare tutto il resto (controcultura, autoproduzioni,  informazione indipendente e tutto ciò che non è monetizzabile).
I protagonisti principali di questa drammatica svolta? Google, il paladino della libertà in rete ed il provider Verizon.

A distanza di poche ore dalla diffusione di queste voci arrivano secche smentite, raccolte al balzo dai fresconi di Punto Informatico. Ai quali è però sfuggito un fattarello.
Infatti mentre Google, imbronciata, nega l’esistenza di un qualsiasi progetto che vada in questa direzione,  Logitech sbandiera ai quattro venti l’elaborazione di un nuovo prototipo di WebTV, frutto di una partnership con Mountain Views e basata sui suoi standard (Chrome e Android).

Strano che nessuno ci abbia fatto caso.
Eppure la fonte non è particolarmente riservata.
La notizia non proviene da intercettazioni ancora al vaglio dei magistrati né da illeciti scatti rubati che ritraggono Brin e Page intenti a festeggiare l’ennesimo piano di dominio per il web scambiandosi piccanti effusioni (leggi slinguazzate) sulle ginocchia dell’AD di Logitech.

La “gola profonda” è in famiglia. Si tratta dei cuginetti di PI, i raffinatissimi giornalisti di Wired Italia, che ancora una volta ci deliziano con un articolo talmente degno di nota che proprio non possiamo esimerci da scrivere due righe. Prosegui la lettura »

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Switch-off the Internet? WTF!?!

Alcuni spunti di riflessione sullo stato in rete e della rete

Un paio di giorni fa sulle colonne di Infoaut è apparso un editoriale su un disegno di legge,in via di discussione al Congresso statunitense, che prevederebbe l’eventuale possibilità di “chiudere” o “spegnere” internet per 90 giorni previa autorizzazione presidenziale.

Ma cosa significa “spegnere la rete”? Se non si definisce quest’affermazione  e non si va oltre la fascinazione (e l’implicita necessaria semplificazione) del titolo giornalistico si rischia di non capire nulla e sbagliare. I termini della questione, pure già oggetto di aspra polemica, sono ora come ora abbastanza vaghi. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti non possiamo che limitarci a vagliare alcune ipotesi.

Tralasciamo immediatamente i balbettamenti sulla “natura” democratica della rete (il “fu” nemico mortale del concetto di sovranità, frutto di un dogmatismo sconfitto ormai a più riprese ed in diversi match)  e proviamo a spostarci su un piano più concreto.

Se col nebuloso concetto di “spegnere l’internet mondiale” si rimanda ad una generica inibizione nell’accesso ai network americani, con le ricadute che questo può determinare – per quanto, sia ben chiaro, rispetto a 10 anni fa il numero relativo dei server presenti in
territorio americano è senz’altro più basso – allora siamo di fronte ad un grosso abbaglio. Prosegui la lettura »

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On-line i fake della propaganda sionista

Il ministero degli esteri Israeliano ha pubblicato sul suo account Flickr una galleria di foto delle “armi” sequestrate sulla “Marmara”, l’imbarcazione della Freedom Flotilla su cui si è consumatala strage che ha fatto registrare fino a questo momento nove morti e diverse decine di feriti fra gli attivisti presenti a bordo.

Non è stato sufficiente per Israele accentuare il suo isolamento e perdere l’appoggio di un alleato strategico come la Turchia. Non sono bastate le reazioni che hanno portato alla mobilitazione dei movimenti sociali in Europa (culminati un paio di giorni fa in
violenti scontri a Parigi ed Atene), Medio Oriente ed America. Non è ancora abbastanza lo sdegno e l’imbarazzo provocato nelle cancellerie di tutto il mondo (in primis di quella americana). Lo stato ebraico ha deciso che la misura non è colma e con la pubblicazione di tali foto in rete sigla quello che può che essere considerato a tutti gli effetti come un ennesimo autogol. Prosegui la lettura »

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