Archivio per la categoria Privacy

The Battleground

John Perry Barlow ha affermato che Wikileaks è stato il primo campo di battaglia della grande infoguerra mentre le rivoluzioni arabe sono il secondo. E che soprattutto molti altri ancora ne verranno.

140 suggestivi caratteri da cui partire. Un trampolino di lancio per una profonda esplorazione che negli anni a venire riempirà scaffali di intere biblioteche e gigabyte di archivi digitali.

A partire dall’esplosione del Cablegate del dicembre 2010 fino alle rivolte che stanno attualmente infiammando il Nord Africa, hanno cominciato a prodursi all’interno del sistema informativo globale fratture che sembrano ormai insanabili.

Dal punto di vista del ruolo di Internet esse producono un prisma analitico i cui cristalli irradiano sfumature cromatiche ancora indefinite ma sulle cui punte già si legge chiaramente la sconfitta di tante impostazioni ideologiche e credenze relative alla rete. E allo stesso tempo esse rappresentano una prima cartina al tornasole sugli orizzonti delle forme di militanza locale e globale on-line.

Oltre a causare uno sconquasso geopolitico che sta rapidamente mutando il volto delle relazioni internazionali, l’esplosione delle rivolte sociali sulle coste del Mediterraneo ha visto un ruolo significativo della rete all’interno dei processi rivoluzionari dispiegatisi nell’area. Nelle fasi insurrezionali e post-insurrezionali magrebine, Internet è emersa sia come dispositivo con cui lanciare l’attacco al potere costituito sia come strumento importante nella possibilità di costruzione di una società altra.

Ma per quanto ci riguarda è chiaro che questi fenomeni non possono e non devono essere guardati attraverso la rudimentale, puerile e spesso strumentale apologia che individua nei social media il carburante quando non addirittura (!!) la causa scatenante delle rivolte. Ci interessa invece, una volta di più, coglierne l’affascinante ambivalenza situata all’incrocio tra potenza e limiti della rete, dove in pochi click gli switch sociali instradano il flusso delle informazioni da un network all’altro. Prosegui la lettura »

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La polizia ci spia su Facebook? Tanto stupore per nulla

Stupirsi del fatto che la polizia usi Facebook per spiare la attività degli utenti in rete, è un po’ come stupirsi del fatto che all’ombra dei palazzi romani e delle emittenti televisive milanesi, gli esponenti del potere si dilettino a fare “bunga bunga” con giovani donzelle più o meno compiacenti. Solo i giornalisti del gruppo editoriale “L’Espresso” possono pensare che una notizia di questo genere abbia rilevanza o presenti davvero il benché minimo carattere di novità.

Minchia commissà! Ci stanno spiando su Feisbuc!

L’articolo firmato da Giorgio Florian (“La polizia ci spia su Facebook”) che tanto clamore ha destato negli ultimi due giorni, a nostro modo di vedere, è attraversata da una linea narrativa di una banalità disarmante, in cui la storiella dell’orso viene venduta come la rivelazione dell’anno.

Provando anche a dare una lettura della smentita a tempo record della polizia postale, fatta a mezzo ANSA alle ore 16.30 di giovedì, vediamo quali possono essere i piani su cui la questione va affrontata.

Il primo è quello più ovvio che, dal basso della nostra esperienza militante, abbiamo già abbondantemente sedimentato nel bagaglio delle conoscenze quotidiane e sperimentato sulla nostra pelle. L’abuso degli strumenti digitali nelle indagini di polizia è qualcosa che nasce con il cellulare, ma che ha probabilmente origini molto più antiche ed analogiche. È semplicemente ovvio che la polizia nella sua opera costante di sorveglianza sui soggetti “devianti” abbia la possibilità di fare (e faccia effettivamente) largo uso di intercettazioni (telefoniche, ambientali ed informatiche) non autorizzate in alcun modo dalla magistratura. Chiedetelo a qualsiasi avvocato un pò scafato e ve lo confermerà senza troppe remore. Se fate caso alle parole di Antonio Apruzzese, direttore centrale della polizia postale, noterete che il fatto in se non viene assolutamente negato. Semplicemente si attesta che i cybercop – bontà loro – si muovono «sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale». Il che però non significa che intercettazioni prive di valore probatorio in un’aula di tribunale (ovvero non utilizzabili nella formazione della prova) non possano essere fruttuosamente impiegate in attività di “prevenzione” e repressione. Prosegui la lettura »

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Mani tese e pugni chiusi

Sabato 11 settembre “Il Resto del Carlino” ha aperto l’edizione locale con l’ennesimo scoop sensazionalistico della campagna “Diamoci una mano” sull’emergenza writing. A dire la verità il concetto di scoop ha una connotazione eccessivamente meritoria: “squallido” e “servizietto” sono due termini che forse meglio si prestano per definire le paginette vergate dalla “Torquemada de noantri” Federica Andolfi.

Il succo della notizia è questo: un cavaliere della rete solitario (ovvero senza amici) che per comodità chiameremo “Federica Andolfi”, avrebbe deciso di dare un senso alle sue grigie giornate (e sopratutto bianche nottate), ricostruendo l’identità anagrafica di alcuni writer attivi sul territorio bolognese. Tali informazioni sarebbero state impacchettate in un dossier di 250 «elementi probanti in formato jpeg» (cioè 250 immagini scaricate da Facebook, Flickr e Myspace), consegnato in questura dall’ex forzanovista Daniele Corticelli, capobastone della temibile organizzazione “Bologna Capitale”. Giunto in piazza Galilei sbracciando pur di dare al suo oscuro partituncolo 20 righe di notorietà, davanti ai flash dei fotografi (l’unico presente era quello della solita Federica Andolfi) ha dichiarato con sfumati toni politologici: «Mo ‘sti cornuti li teniamo ben per le palle. Noi cittadini di etnia bolognese vogliamo il sangue. Ora la polizia sa chi sono e deve picchiare duro». E poi, a degno coronamento del suo inappuntabile ragionamento, si è asciugato la bava alla bocca ed ha fatto un bel rutto soddisfatto.

In attesa che il meritato Pulitzer venga attribuito a Federica non sembra una cattiva idea quella di mettere i puntini sulle i, e chetare i bollenti spiriti del popolino. Prosegui la lettura »

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Netwar on Videocracy

Un breve commento sulla vicenda Google-ViviDown

Tre dirigenti di Google sono stati inchiodati al banco degli imputati per l’affare Vividown che li vedeva indagati per violazione della privacy e calunnia come conseguenza della mancata rimozione dal network di Google Video un filmato risalente al 2006. Protagonista un ragazzo down
brutalmente vessato da dei coetanei in una scuola di Torino. David Carl Drummond,ex presidente del cda di Google Italia e ora senior vice president, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy; Peter Fleischer, responsabile policy Google sulla privacy per l’Europa sono
stati ritenuti colpevoli dal giudice Oscar Magi di uno dei due reati loro attribuiti (violazione della privacy) e condannati a sei mesi di carcere con sospensione della pena

Riassumendo in poche parole: il tribunale di Milano ha affermato la responsabilità di Google sui contenuti immessi dagli utenti sulle reti di sua
proprietà. Il “Gigante Buono” non va dunque considerato come una scatola vuota o un mero condotto di diffusione dell’informazione, ma deve essere posto sul medesimo piano giuridico di qualsiasi altro editore.

Ci pare improbabile calarci in un ruolo di azzeccagarbugli che non ci appartiene, né vogliamo unirci al totoscommesse sulle motivazioni della sentenza. Ugualmente non ci lasciamo appassionare da suggestioni in salsa ER sull’aviaria o sull’ultima sindrome cinese, très à la page bien sûr, ma cariche di molto sensazionalismo e poca sostanza. Prosegui la lettura »

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Il browser è mio e me lo gestisco io!

Osservare il flusso di informazioni che si genera in rete è sempre
un’esperienza istruttiva: a volte se ne resta colpiti per la potenza
circolare, a volte suscitano ammirazione le sofisticate tecniche
comunicative di chi è in grado di manipolarlo ed indirizzarlo, altre
ancora provocano ilarità i grossolani autogol  di chi se ne ritrova
involontariamente sommerso. E questo è il caso di cui vorremmo parlare
oggi.

MediaFire è un servizio di file-hosting che offre spazio
illimitato agli utenti che vi si registrano. Forse chi legge già lo
conoscerà: si tratta di un’azienda web assimilabile a RapidShare o
MegaUpload, tipici diversivi a cui spesso si fa ricorso durante le
serate di noia passate in solitudine, quando l’ormai usurato hard disk
esterno non ha più nulla di stimolante da offrire e si cerca quindi
disperatamente riparo fra i contenuti aggregati negli anfratti della
rete.

Come la maggior parte delle forme di web-business ( quasi
la totalità a dire il vero ) anche questa si basa sulla pubblicità:
durante l’attesa per poter cominciare il download del film o del
videogame a cui siete interessati dovete sorbirvi alcune tediose
strisce pubblicitarie a cui normalmente quasi nessuno presta mai
particolare attenzione (anche perché, indipendentemente dall’attrattiva
che determinati prodotti possono esercitare, il reddito disponibile ai
più ormai viene rosicchiato giorno dopo giorno come i metri che
intercorrono tra due trincee in una guerra di posizione, rendendo
qualsiasi necessità o desiderio nulla più che una mera velleità). Prosegui la lettura »

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Frammenti di identità collettive dentro e fuori la rete – Dialogo con Carlo Formenti – Seconda Parte

Continuiamo con la trascrizione dell’intervento di Carlo Fomenti ai seminari di Not[Net]Working – La rete non è un media , che hanno avuto luogo a Maggio nella facoltà di lettere e filosfia di Bologna. In questa seconda parte si parla della creazione di soggettività politiche nelle società mediali. Buona lettura.

Prima parte

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