«Non è solo un atto barbaro e vigliacco. Troppo facile liquidarlo così. È un attacco al nostro modello di società. Ci odiano, odiano il nostro stile di vita e colpiscono dove siamo più vulnerabili…
Che tu sia maledetta FBI! La chiusura di Megavideo è un atto di guerra contro un’intera generazione!»
NeetKidz – ZeroCalcare
Con buona pace di Samuel Huntington e dei suoi rapaci epigoni annidati tra i falchi di Washington nell’era Bush, l’unico vero scontro di civiltà consumatosi negli ultimi anni e fondato su valori culturali, è stato quello che ha opposto le grandi major di Hollywood e la generazione digitale dei NeetKidz, raccontata magistralmente dalle strisce di fumetti di ZeroCalcare.
Il raid condotto un anno fa dalle autorità federali statunitensi contro i server di MegaUpload si colloca sullo sfondo di una guerra per il controllo del mercato dell’informazione in corso da anni tra anarco-capitalismo digitale e vecchi conglomerati dell’entertainement. Allora, il sequestro di migliaia di gigabyte di dati – ancora oggi nelle mani del Dipartimento di Giustizia, nonostante si trattasse in larga parte di materiali non coperti da copyright e quindi perfettamente legittimi – mise in luce come di fatto gli utenti non siano soggetti cui è attribuito alcun profilo giuridico. La tutela dei loro diritti (anche quelli di proprietà dei beni immateriali) non è ancora materia affermata o condivisa da alcuna dottrina o regolamento internazionale.
Ed è probabilmente a partire da questa intuizione che Kim ‘Dotcom’ Schmitz ha intenzione di fondare il suo nuovo impero. Il core business della sua nuova creatura, ribattezzata semplicemente MEGA, è la privacy degli utenti. Oltre allo spazio messo a disposizione (50 gigabyte gratuiti per gli account free, fino a 2 terabyte per quelli premium) crittografia ed un senso di sicurezza sono l’oggetto dello scambio. Se non fosse per questi due elementi implicati nella transazione, il cyberlocker dell’ex-hacker tedesco sarebbe simile a tanti altri servizi cloud già presenti sul mercato (come DropBox o Skydrive). E forse non avrebbe alcuna speranza di competere con questi colossi.
Attenzione. L’idea di Dotcom non brilla per originalità. Il pasciuto imprenditore è solo l’ultimo di una lunga serie che devono la loro fortuna proprio allo scontro generazionale di cui dicevamo in apertura. Non è un mistero che da diverso tempo sia in crescita un florido mercato di servizi per la tutela della privacy e della sicurezza, rivolto proprio all’utenza domestica. Si pensi infatti alla miriade di imprese che erogano servizi VPN (acronimo di Virtual Private Network): basta fondare una società in un paese dove la legislazione sulla data retention sia sufficientemente permissiva e per una manciata di euro si può vendere l’accesso a tunnel crittografici. Uno scudo digitale con cui navigare al riparo dagli occhi indiscreti del proprio governo e scaricare in pace musica e film, senza per questo rischiare di finire in tribunale con l’accusa di aver infranto le leggi vigenti sul copyright ed incorrere in multe da decine di migliaia di euro.
Dotcom si inserisce in questa scia. Commercializza privacy e sicurezza nell’epoca segnata dal motto “Privacy? You can have zero privacy” e da una criminalizzazione delle pratiche di sharing al di là di ogni limite immaginabile. L’ex hacker, ed oggi geek a tutti gli effetti, ha avuto l’intelligenza di saper sfruttare bisogni e pratiche socialmente diffusi e trasformare in materia prima per il processo produttivo attitudini, stili di vita e modalità di accesso ai manufatti digitali. Non è il primo e certo non sarà l’ultimo. Facebook ad esempio, in un mondo segnato da dinamiche di precarietà lavorativa ed esistenziale, ha come mission quella di «aiutare l’utente a rimanere in contatto con le persone della sua vita» (ovviamente in cambio dei suoi dati personali). E nel medesimo contesto trova la sua ragion d’essere un social network come Linkedin, ovvero un’agenzia di lavoro interinale aperta 24 ore al giorno dove l’annoso problema dei diritti sindacali è solo un ricordo del passato. Ma nella schiera dei geek (cioè dei cacciatori di tendenze) degni di menzione troviamo altri nomi, apparentemente insospettabili. Ciò che infatti un personaggio come Julian Assange aveva capito perfettamente, è che nell’era della riproducibilità infinita dell’informazione, il leaking (esattamente come il P2P o la condivisione di files) è una tendenza sociale irreversibile che con un pizzico d’ingegno può essere messa a valore. A questo puntava l’operazione Wikileaks prima di sfuggire di mano. Ovvero alla creazione di una nuova forma di impresa ed intermediazione giornalistica che andasse ad affiancarsi alle agenzie stampa tradizionali (ovviamente dietro congruo compenso da parte dei “media partner” prescelti).
Il vero colpo di genio di Dotcom è stato quello di presentare il business plan della sua nuova avventura commerciale come una missione in difesa dei diritti umani. E non ultimo di trasformare l’esibizione di forza muscolare del Dipartimento di Giustizia americano contro MegaUpload in uno spettacolo che ne celebra la rinascita. Unico protagonista dello show è lui, Kim. Come nella più classica delle favole della new economy il self-made-man, deus ex machina di avventure economiche che diventeranno leggenda, ascende al cielo dei folk heroes di Internet partendo dalle segrete del carcere in cui era stato rinchiuso. Con un lieto fine d’obbligo: il nostro protagonista da nemico pubblico numero uno si trasforma in un brand, un’icona pop in cui il pubblico può identificarsi. E guadagna milioni di dollari. Dotcom ha rovesciato come un guanto la sua vicenda personale e ne ha fatto motivo di sfida. In questo senso ha mostrato una profonda conoscenza dei meccanismi del marketing odierno, caricando il suo nuovo prodotto di una dimensione utopistica, generando così uno spazio pubblico dell’emozione che unifica affettivamente la società e rende attraenti le merci che lo popolano.
La campagna pubblicitaria virale che ha anticipato il rilancio di Mega, ha avuto il pregio di evocare alcuni degli immaginari più consolidati e seducenti dell’era di Internet, profondamente radicati nella cultura hacker delle origini, eppure mai come oggi messi a rischio dalla mutazione in senso securitario che da diversi anni sta investendo la rete. La resistenza al grande fratello (ricordate lo spot di Apple del 1984?); la lotta contro l’indebita ingerenze di un governo ingiusto e tirannico nella vita delle persone (come fece J.P.Barlow quando scrisse il suo manifesto per l’indipendenza del cyberspazio); la liberazione dai gatekeeper parassitari dell’informazione; la difesa della privacy in un momento in cui le rivelazioni in merito al sistema di sorveglianza globale TrapWire ancora scottano. Infine il tentativo di appropriarsi della figura di Aaron Swartz: il vessillo perfetto da issare al grido di “Information wants to be free” per chiamare alle armi la Silicon Valley unita nello scontro finale con Hollywood ed un sistema di protezione della proprietà intellettuale ormai morente, anacronistico, privo di senso. Geniale il conto alla rovescia su Twitter, durato giorni e scandito da messaggi in 140 caratteri con cui Dotcom ha incalzato direttamente il governo statunitense e lo stesso Barack Obama («un anno dopo sono ancora qui: non potete fermarci»). Geniale l’incursione nelle emittenti radiofoniche con una campagna di jingle per promuovere il ritorno di MEGA e punzecchiare le major, sconfinando nell’unico territorio mediale ancora oggi regno incontrastato della grande industria discografica. Che nella sua cecità ha abboccato alla provocazione, obbligando diverse emittenti a stracciare i contratti pubblicitari stipulati con MEGA. Con Dotcom gongolante che dal suo profilo Twitter ringrazia per l’ennesimo assist involontario: «ancora una volta le grandi etichette abusano del loro potere».
Quest’intreccio di storia, utopia e futuro sembra aver portato i frutti tanto attesi. Sabato 19 gennaio, a poco meno di due ore dalla sua riapertura, MEGA contava già 250000 iscrizioni ed i suoi server sono stati letteralmente inondati da milioni richieste. Talmente tante da rendere il sito inaccessibile per quasi 24 ore. Un blackout forse dovuto all’hype che ne aveva circondato il rilancio ma che proprio per questo risulta anomalo: non sono mancati i sospetti di un attacco DDOS, magari organizzato dalle lobby dell’industria della discografia, come RIAA ed MPAA, che in questo modo avrebbero voluto dare il loro augurio di “ben tornato” al nemico di sempre. Dotcom ha ovviamente affermato il contrario, imputando il blocco del servizio all’overload di banda. Ma non avrebbe potuto fare altrimenti. Se dopo tanto baccano il nuovo MEGA “bigger, better, faster, stronger and safer” avesse debuttato con un fiasco conclamato, oltre ai fischi dal loggione avrebbe raccolto anche le perplessità di milioni di utenti sulla sua effettiva capacità di resistere ad eventuali forme di sabotaggio perpetrate da governi ed entità antipirateria. Lo scotto dell’anno scorso, quando a milioni si sono visti improvvisamente privati dei file che avevano archiviato nella cloud di MegaUpload, brucia ancora. Oggi basterebbe il più piccolo dubbio per far vacillare la fiducia degli utenti, che probabilmente, di fronte alla possibilità del ripetersi di tale esperienza, opterebbero per l’utilizzo di servizi, forse meno generosi in termini di spazio ma senz’altro più rodati (come DropBox).
Una minaccia questa che d’altra parte sembra essere tutt’altro che remota e che pare manifestarsi anche sul fronte legale. Mentre gli obiettivi erano ancora puntati sul set d’inaugurazione approntato da Dotcom, la sua nuova creatura finiva già nel mirino di StopFileLocker, un’associazione facente capo a Robert King, produttore cinematografico di materiale per adulti. King afferma di aver «già individuato un numero significativo di materiale illegale e che viola il copyright». Se dovesse portare delle prove a sostegno di tale affermazione, allora il passo successivo potrebbe essere quello di obbligare le società che gestiscono i sistemi di pagamento on-line (come PayPal) a chiudere i rubinetti finanziari di MEGA. Una mossa capace di mettere in ginocchio in breve tempo la piattaforma di storage e contro cui la sua nuova architettura distribuita potrebbe ben poco. Wikileaks docet. È ancora presto insomma per dire, come ha fatto il portale Gizmodo, che l’arrivo di MEGA segna lo smantellamento definitivo del copyright. E poco conta che il servizio di Dotcom sia stato studiato per costeggiare attentamente il sottile confine tra legalità ed illegalità. Tali proclami sembrano rieccheggiare in tutto e per tutti quelli che avevano accompagnato la celebrazione del processo contro Pirate Bay. Anche allora a finire sotto l’attenzione degli inquirenti era stato un sistema di sharing apparentemente inattaccabile da un punto di vista legale (con l’importante differenza che il sito di tracking svedese non teneva in memoria alcun file coperto da copyright). Anche in quel caso si inneggiava alla fine della proprietà intellettuale. Eppure oggi la crew di Pirate Bay è stata condannata a pene severissime ed alcuni dei suoi componenti sono stati addirittura costretti ad un periodo di latitanza all’estero.
È il tempo della Twitter Revolution: se un like o un tweet sono considerati un gesto di liberazione, lo stesso potrebbe valere per l’apertura di un account premium su MEGA con cui tutelare la riservatezza delle proprie comunicazioni. In entrambi casi si acquista un’illusione: nel primo quella di incidere con un click su processi politici al di fuori del proprio controllo (un esempio è l’arcinota campagna virale Kony2012), nel secondo quella di riprendersi il diritto di poter condividere e accedere liberamente al sapere. In entrambi i casi la “libertà” offerta dalle internet companies ha un prezzo. I primi infatti sono tutt’altro che gratuiti, visto che la loro contropartita sta nella cessione del controllo dei propri dati personali ad un’impresa privata. Il secondo specularmente ha un costo da corrispondere in denaro per riacquisire, seppur in minima parte, proprio quel controllo perduto. Detta altrimenti il lancio del nuovo servizio offerto da Dotcom è perfettamente coerente con i caratteri dell’epoca storica in cui si dispiega. Un suo eventuale successo sarebbe comunque un evento carico di ambivalenze su cui interrogarsi. La sua diffusione di massa potrebbe segnare l’affermazione definitiva di un trend ormai manifestatosi da tempo che vede concetti come privacy e sicurezza relegati ad una dimensione passiva di consumo. Allo stesso tempo però è altrettanto vero che se pure gli utenti si trovassero a fruire di servizi e dispositivi di cui non sarebbero in grado di comprendere il funzionamento né la libertà che viene loro offerta, il vaso di pandora della crittografia ne uscirebbe scoperchiato ed anche le masse potrebbero cominciare ad apprezzarne l’utilità. E questo senza tenere conto che una diffusione a livello massivo degli strumenti crittografici potrebbe rendere a governi ed agenzie di sicurezza di tutto il mondo la vita tremendamente più complicata di quanto non sia ora. Ci aspettiamo che da quest’ennesima disputa il sempiterno dibattito che oppone privacy e tutela della proprietà intellettuale esca rinfocolato. «Il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d’America» si chiede il giurista Guido Scorza «è pronto a stabilire il principio che la difesa del copyright giustifica la violazione della privacy dei propri cittadini e di quelli del resto del mondo?». Ciò che è in gioco in questa partita è in effetti una vasta modificazione di strutture e valori che sono uno prerequisiti sociali ed organizzativi necessari per l’adozione di una tecnologia. Eppure dietro l’angolo sembra fare capolino una deriva allarmante piuttosto che un lieto fine. Se privacy e sicurezza diventeranno unicamente oggetti di consumo, allora smetteranno di essere diritti per trasformarsi in beni scarsi, erogati dietro compenso da entità private. E se oggi il volto dei “garanti” di quello che è formalmente sancito come uno diritto umano fondamentale ha i tratti truculenti e feroci del Dipartimento di Giustizia USA, domani potrebbe avere l’espressione ammiccante di imprenditori rapaci e popstar della rete come Kim ‘Dotcom’ Schmitz. E questa è tutt’altro che rassicurante.
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