Sabato 11 settembre “Il Resto del Carlino” ha aperto l’edizione locale con l’ennesimo scoop sensazionalistico della campagna “Diamoci una mano” sull’emergenza writing. A dire la verità il concetto di scoop ha una connotazione eccessivamente meritoria: “squallido” e “servizietto” sono due termini che forse meglio si prestano per definire le paginette vergate dalla “Torquemada de noantri” Federica Andolfi.
Il succo della notizia è questo: un cavaliere della rete solitario (ovvero senza amici) che per comodità chiameremo “Federica Andolfi”, avrebbe deciso di dare un senso alle sue grigie giornate (e sopratutto bianche nottate), ricostruendo l’identità anagrafica di alcuni writer attivi sul territorio bolognese. Tali informazioni sarebbero state impacchettate in un dossier di 250 «elementi probanti in formato jpeg» (cioè 250 immagini scaricate da Facebook, Flickr e Myspace), consegnato in questura dall’ex forzanovista Daniele Corticelli, capobastone della temibile organizzazione “Bologna Capitale”. Giunto in piazza Galilei sbracciando pur di dare al suo oscuro partituncolo 20 righe di notorietà, davanti ai flash dei fotografi (l’unico presente era quello della solita Federica Andolfi) ha dichiarato con sfumati toni politologici: «Mo ‘sti cornuti li teniamo ben per le palle. Noi cittadini di etnia bolognese vogliamo il sangue. Ora la polizia sa chi sono e deve picchiare duro». E poi, a degno coronamento del suo inappuntabile ragionamento, si è asciugato la bava alla bocca ed ha fatto un bel rutto soddisfatto.
In attesa che il meritato Pulitzer venga attribuito a Federica non sembra una cattiva idea quella di mettere i puntini sulle i, e chetare i bollenti spiriti del popolino.
Prima di tutto quelli consegnati in questura non sono elementi probatori. Tutt’al più rappresentano notizia di reato di fronte al quale il PM di turno potrà intraprendere due strade: o aprire un’ indagine (consultandosi con la postale sulla spendibilità del dossier consegnato e successivamente ricominciando il lavoro da zero) o aprire gli scaffali dell’archivio e riporre «lo sconcertante dossier» nella già voluminosa cartella presente sotto la voce “cazzate”. Data la pressione mediatica di questi giorni non è improbabile che un’indagine venga effettivamente aperta. A quel punto tutto dipenderà dalla volontà persecutoria della procura di Bologna (che sappiamo essere tra le più oberate di processi in Italia). Ma ci sono buone motivazioni per ritenere che alla fine tutto potrebbe terminare con un buco nell’acqua. Non tanto perché – come è facile immaginare – nutriamo alcuna fiducia in un mitologico “buon senso” della magistratura (come dimostra la persecuzione giudiziaria protratta nei confronti di Bros, uno degli artisti più valenti del panorma meneghino ed italiano). Ciò che ci spinge a propendere per questa ipotesi è il fatto che la cosiddetta “obbligatorietà dell’azione penale” è solitamente oggetto di una meticolosa valutazione, frutto di una proporzione tra aspettativa, possibile risultato e costo delle indagini. E da questo punto di vista la manipolabilità delle informazioni in Internet non è certo d’aiuto.
Come è stato portato avanti il «lavoro di intelligence» di cui ha fatto menzione il buon Corticelli? La fumosità dell’articolo del Carlino non ci permette in alcun modo di comprenderlo ma, visto che di tecnologie e rete qualcosina mastichiamo, ci sentiamo di azzardare un’ipotesi. Sempre che la cosiddetta “spia della rete” esista, la sua opera non è nient’altro che una delle espressioni più basse del data mining, ovvero di quell’attività, che, portata avanti con diverse metodologie, estrapola dati presenti da un insieme, li incrocia e tenta di dare loro senso e forma. Dal momento in cui non si ha accesso a risorse particolarmente sensibili (come i log dei server e gli indirizzi ip interessati) si tende invece ad utilizzare dati pubblici (foto, rose di relazioni, profili, tag e dati exif sulle fotografie pubblicate) che però non possono essere considerati a fini penali come riscontri oggettivi, salvo si decida di mettere in campo dispendiose perizie forensi, solitamente appaltate ad aziende private, cui viene delegato il compito di produrre la prova con costi di migliaia di euro al giorno. Si avete letto bene. Al giorno.
“Web 2.0” è sinonimo di user-generated-content: chiunque può apporre tag, link e commenti sotto una foto. Se domani marcassimo con il tag del nostro profilo Facebook le foto di alcuni dei murales incriminati (magari facendolo anche solo per esprimere apprezzamento verso questa forma d’arte o verso le crew che con la loro creatività ingrassano i muri felsinei) dovremmo forse temere di essere schedati ed inquisiti come vandali e danneggiatori del patrimonio pubblico?
A questa prima considerazione se ne possono aggiungere altre non irrilevanti. Chi si guarda attorno quando cammina per strada, sa bene che diversi dei writer citati nell’articolo di Andolfi non sono (purtroppo) più attivi da diverso tempo. Inoltre sussiste un principio chiamato “irretroattività dell’azione penale”. Dato che il writing rientra nella categoria dei reati penalmente rilevanti da solo un anno, chi si prenderebbe la briga di investire cifre cospicue per perseguire gli autori di pezzi di 3-4-5 anni fa? In questo caso infatti quand’anche ne venisse accertata la “colpevolezza” l’unico risultato ottenuto sarebbe una sanzione amministrativa. Ad ogni modo, nella malaugurata ipotesi che l’indagine prendesse davvero piede, sarebbero necessari mesi e mesi prima di giungere a risultati tangibili. Infine per evitare il problema in futuro, basterebbe prendere alcuni accorgimenti (come l’utilizzo di un profilo falso, magari condiviso con degli amici) ed imparare a tutelare la riservatezza dei propri dati con strumenti di crittografia ormai alla portata di tutti. La carriera del fantomatico cacciatore di taglie, immaginiamo iniziata sulle scoppiettanti note di “Fight for this love“, si avvierebbe mestamente sul viale del tramonto con la sinfonia di “Requiem for a dream” a fare da tappeto sonoro.
Ora però cambiamo discorso: non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di entrare nel falso dibattito “Writing si – Writing no – Writing come – Meglio dargli da dipingere le serrande dei negozi del centro o i cessi della stazione per farli stare buoni?”, e per quanto ci riguarda è fuori discussione che le pene attualmente inflitte a chi viene sorpreso a dipingere sono assolutamente spropositate e puzzano d’isteria collettiva.
Ci preme più sottolineare che, comunque vada a finire, sul piano comunicativo-politico questa vicenda svolge almeno 3 funzioni.
Prima di tutto ha il chiaro obbiettivo di mettere sotto pressione la scena del writing bolognese, gettandola nel tritacarne mediatico, mettendone alcuni singoli esponenti alla berlina (magari esponendoli al pubblico ludibrio, e lasciando che i commentatori del sito del Carlino si divertano a divulgarne false credenziali come è successo qualche giorno fa) e paventando a mezzo stampa un accerchiamento che non c’è: per questo scopo si presta dunque alla perfezione l’immagine di un invisibile giustiziere della notte che, raccogliendo dati nei loro confronti, consegna alla polizia prove inconfutabili per metterli con le spalle al muro. Un meccanismo d’indagine dalla dubbia efficacia legale come abbiamo visto prima, ma sappiamo ormai bene come la dissimulazione e la creazione dei fatti svolgano un ruolo di regolazione attiva sui territori nei confronti dei tessuti sociali che li innervano (ed una conferma a questa tesi viene data dalle parole di G.Tonelli, direttore generale dell’ASCOM che ha dichiarato ieri al Carlino:«Speriamo che la nostra iniziativa — sottolinea Tonelli — permetta di ottenere dei veri risarcimenti e, soprattutto, spinga i graffittari a riflettere che la loro attività non è più permessa né tollerata: se capiscono di essere seguiti, e che su di loro c’è della pressione, forse è la volta buona che, come si sono cancellati da Facebook e dagli altri siti Internet, si cancellino anche dai muri della città».
Inoltre è ormai chiaro come la saturazione dei media locali sulla questione writing configuri lo spostamento dell’agenda setting su temi non rilevanti: per settimane è stato l’unico argomento a tenere banco, nel tentativo di coprire il vuoto di idee di una compagine politica cittadina che, di fronte all’imminenza delle elezioni, ha avuto e sta avendo grosse difficoltà, non solo ad esprimere un programma di governo, ma addirittura un candidato condiviso! Il concetto di “degrado” appare ormai sempre più come un magnete semantico che attira a se una cacofonia di concetti, per uniformarli e subordinarli in un’unica prospettiva lessicale, dialettica e politica. Così facendo si annullano problematicità, ricchezze e complessità che emergono dalle contraddizioni della vita cittadina, e lo svilimento di qualsiasi forma di dibattito (“Oh ma non li starai mica difendendo vero? Attirano/Producono/Sono degrado!”) produce un comodo paravento dietro cui l’inadeguatezza della rappresentanza nel formulare proposte o escogitare soluzioni (che non siano le ruspe sul Reno o le ronde dei city angels) può trasformarsi in un più convincente e meno impegnativo spettacolino teatrale.
Infine è opinione di chi scrive che campagne lanciate dal Carlino come “Diamoci una mano”, ottemperino ad uno specifico traguardo: la creazione di comunità. Una comunità assediata e profondamente atomizzata, che intuendo (ma non comprendendo) i profondi mutamenti verso cui la società italiana si sta avviando, si sente rassicurata da una mobilitazione che afferma la conservazione dei valori che fino a questo momento le sono stati propri. Poco conta che questa mobilitazione si esaurisca nella frustrazione delle chiacchiere da bar, affogata sul fondo di un bianchino dopo otto ore passate al lavoro (quando va bene): essa è manifesta sulle pagine dei quotidiani e dei media locali, fa sentire parte di un’entità aleggiante ma allo stesso tempo evanescente, addita ciclicamente colpevoli ed untori mentre le dita tese si spezzano nello sforzo. E come unico risultato tangibile i cordoni della celere diventano una cornice blu che avvolge il ritratto dell’Italia di oggi
A ben guardarla però questa comunità, fa davvero paura: formata da uno nessuno e centomila, non la si trova nelle piazze che vorrebbe vuote e silenziose, né per le strade che vorrebbe monocromatiche e sbiadite. Tutt’al più se ne ravvisano le traccie in botteghe di legno umido marcescente, nelle feste di partito ridotte a show room delle più infime televendite e nelle segreterie di facoltà asettiche che sembrano sedi periferiche del ministero dell’amore. Ne fanno parte ex-fascisti in cerca di fama, alpini in licenza, “hacker” che fra un raccolto di scalogno nella loro Farmville su Facebook ed un acquisto su e-bay giocano a fare i piccoli fratelli per tenersi impegnati, anziane matrone dai capelli cotonati e con un trucco troppo pesante sul volto che non parlano mai con nessuno se non a fine mese quando suonano forte il campanello per reclamare il pagamento dell’affitto, macellai isterici che nel perenne momento dell’attesa assaggiano il sangue rimasto sul filo del coltellaccio con cui hanno affettato la carne che venderanno in sovrapprezzo, fruttivendoli islamofobici che invitano a tagliare le mani di artisti che sono una delle espressioni più belle della nostra città.
Datevi pure una mano, ma fatelo tra di voi.
Noi preferiamo stringere i pugni: siano essi quelli dei writer che, col tatto soffice dei loro polpastrelli su tappini e marker, schiaffeggiano il volto sbiadito della città; quelli dei veri hacker che accarezzando nervosamente le tastiere reinventano l’uso della rete o ne propongono uno antagonista; quelli di chi, come accaduto la sera del 10 settembre, decide di levarli belli alti, per rovinare la festa ai pifferai magici che, con le loro corti dei miracoli, pretenderebbero di sfamarci a “panem et circenses” mentre si ingozzano col nostro futuro.
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