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Proprietà intellettuale e copyright,
una necessaria medicina da ingurgitare, o un diga al libero flusso creativo?
È tautologico sostenere che la proprietà intellettuale svolga effettivamente il ruolo di benzina dei “motori intellettuali” sociali e che senza di essa le opere dell’ingegno smetterebbero di proliferare e diffondersi.
Si tratta di un’affermazione, che è diventata comunemente accettata grazie a 30 anni di propaganda martellante a senso unico.
Anche dando solo uno sguardo superficiale ai meccanismi del capitalismo applicato all’informazione ci rendiamo subito conto del perché.
Il ciclo tipico della produzione capitalista
concezione –> produzione –> distribuzione –> consumo
viene sostituito da
concezione –> riproduzione delle informazioni –> produzione –> distruzione –> consumo
Questo cosa significa? Significa che la riproduzione prende il posto della produzione la quale ha fondamentalmente un ruolo marginale ( documentazione e packaging ).
Nell’industria del software come in quella degli OGM, la produzione consiste nella copia perfetta di un oggetto informatico e biologico e nella produzione fisica di un “supporto” per la sua diffusione.
Gli introiti delle grandi multinazionali dell’informazione sono quindi basati sul totale controllo della distribuzione dei supporti e dell’uso delle informazioni in essi contenute che sono appunto gli oggetti della legislazione della proprietà intellettuale ( e se per esempio guardiamo i costi della musica o dei libri essi sono dovuti in gran parte alle spese di distribuzione, non finiscono certo nelle tasche di artisti o scrittori ).
In questo senso la necessità del capitale di mantenere un controllo totale sui flussi informativi e di monopolizzarne intere fette di mercato ha modificato la concezione del sapere in un’ottica marcatamente privatistica ( anche laddove questa concezione era impensabile fino a pochi decenni fa ), causando tutta una serie di costi sociali non da poco.
Pensiamo al mondo della ricerca scientifica: da sempre uno dei principi che l’hanno contraddistinto è stata la circolazione delle scoperte e delle conoscenze affinché potessero essere verificate dalla comunità. Questo meccanismo oggi è stato distrutto dall’editoria scientifica che con l’imposizione del copyright sulle riviste di settore, il tessuto connettivo della comunità scientifica, e di conseguenti altissimi costi, impedisce di fatto l’accesso a queste pubblicazioni a moltissime università ed ai singoli ricercatori, impossibilitate a sobbarcarsi queste spese.
Sempre in questo campo anche la corsa al brevetto ha avuto dei risvolti negativi a livello globale: la ricerca è stata frenata (oggi la possibilità di utilizzare una sequenza genetica è legata a doppio filo alla possibilità di poter pagare cifre elevatissime in royalty all’azienda che l’ha brevettata ), l’università è stata ripensata sotto forma di impresa ed il suo prodotto, la sua moneta, è diventata la conoscenza che produce.
Gli effetti più devastanti di queste dinamiche poi si vedono nei paesi del terzo mondo su questioni come la salute pubblica: l’internazionalizzazione del regime di proprietà intellettuale, derivanti da accordi commerciali come i TRIPS o i GATT, non permettono la riproduzione di farmaci generici a basso costo, ma obbligano gli stati ( anche quelli più poveri ) ad acquistarne dalle multinazionali che li producono.
Guardiamo invece al mondo dell’editoria: il mercato italiano ( che si può tranquillamente definire un oligopolio data la posizione affermata ed inattaccabile di poche “eminenze grigie” ) produce ogni anno la pubblicazione di CINQUANTACNQUEMILATESTI. Di questi la maggior parte vende meno di due copie. A prima vista non ci sembra una grande stimolazione del flusso creativo ma semmai il contrario: una vera e propria gabbia ( rigidamente architettata sulle esigenze del mercato ) per la circolazione delle idee, un’ impossibilità di autosostentamento ed un relegamento della figura di operatore culturale ad un ambito sempre più elitaristico.
Di contro per fortuna ci sono esperienze positive anche in questo campo come l’ensemble narrativo KaiZen: il loro ultimo libro “La strategia dell’ariete” pur essendo stato pubblicato sotto copyleft ha avuto una diffusione vastissima ( 7000 copie vendute ).
Inoltre KaiZen è una realtà che è stata capace di demolire, o quanto meno ha mostrato la mistificazione, di uno dei pilastri ideologici della proprietà intellettuale: l’idea dello scrittore solitario e geniale che deve possedere ciò che ha prodotto e rivendicarne la totale paternità. Uno dei progetti che i KaiZen portano avanti è Romanzo Totale, un sito in cui i membri del collettivo pubblicano le loro produzioni e le lasciano alla mercé ed della continua modifica e rielaborazione degli utenti che vogliono metterci le mani sopra.
Andrea di gruppo Laser, ha definito questa pratica come “la strategia del cavallo per battere il copyright”: un racconto, una storia, un romanzo prodotti in copyleft proseguono nella loro rielaborazione in rete per poter essere poi pubblicati in copyleft, per poi essere rielaborati ed ancora ripubblicati. Con il copyright questo gioco non si può fare.
Secondo noi inoltre è interessante questa visione del sapere perché rifugge dalla visione di un opera dell’ingegno come di un semplice artefatto/oggetto cartaceo/merce ( nel caso del libro ) e la ricolloca in quello che è il suo contesto originario fatto di condivisione e di comunanza delle idee.
Se poi volessimo prendere il problema anche dal punto di vista del mercato ci rendiamo facilmente conto che la chiusura sulle posizioni del fondamentalismo della proprietà intellettuale è controproducente anche per il mercato stesso: le reti p2p e la loro diffusione capillare a livello sociale, potrebbero avere degli effetti positivi sulle vendite, abbassando moltissimo i costi di promozione. Qualcuno questo l’ha capito, qualcun altro no. Ed il fatto che i sistemi di condivisione siano fortemente osteggiati ( in primis proprio dalle major dell’entertainement ) è un chiaro segno della volontà oscurantista di voler continuare a privilegiare modelli di business vecchi e più redditizi per chi ha costruito e controlla i monopoli dell’informazione.
Questa situazione è resa sempre più contraddittoria anche dal fatto che le stesse major hanno finalmente ammesso che i dati sulla “pirateria” ( che limiterebbe le vendite e danneggerebbe gli artisti ), dati che sono stati una delle giustificazioni principali per cui la rete è stata posta sotto attacco in questi ultimi anni, sono stati ampiamente gonfiati.
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