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The lobbies of copyright flee. Netwar, final showdown?

Original article in Italian

 

SOPA and PIPA “undermine the internet’s fundamental architecture” professor James Boyle of Duke University said. And he is certainly right. Not by chance yesterday Massimo Gaggi on the Corriere della Sera reported the sarcasm of Chinese newspapers towards the implementation of the censorious barriers entailed by the approval of these bills. There is little space for rejoicing, to say it all. If by any (unlikely) mean the Stop Piracy Online Act and the Protect IP Act would succeed, even in their watered-down versions – against those initially proposed in US House of Representative and Senate – we would be witnessing a steady twist of the Internet as we knew it in the West.

The identity of the Internet – we should know it by now – is something temporary and the transformation of its main features (as, precisely, its architecture) is able to twist the practices of social communication that run through it.

And so what? The battles against SOPA and PIPA are most righteous ones, sacrosanct, to be absolutely won. At least in a tactical perspective. But please, let’s not picture these as battles for freedom of speech and, even less, to preserve those conditions of openness that turned Internet into the biggest agora in the history of mankind. The risk here is to jump out of the frying pan into the fire, without even realizing it. Prosegui la lettura »

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Note a margine dell’E-G8

È difficile capire per quale motivo tante aspettative fossero state riposte nel G8 di Internet svoltosi a Parigi lo scorso 24/25 maggio.  Fortemente voluto dalla presidenza francese di Nicholas Sarkozy si è certo trattato di un evento senza precedenti ed a suo modo storico, visto che mai fino ad oggi i summit dei potenti della terra avevano posto all’ordine del giorno il nodo della govenance globale della rete.

Il fatto che siano effettivamente riusciti ad affrontarlo è però tutt’altro paio di maniche.
Le dichiarazioni ufficiali susseguitesi fin dall’apertura dei lavori hanno infatti messo in risalto come, dietro alla formalità conciliante del linguaggio diplomatico e d’impresa, esistesse un malcelato arroccamento dei diversi partecipanti su posizioni pregresse e consolidate da tempo.

Gli opposti schieramenti hanno sfoderato per la “grande occasione” il meglio del loro armamentario ideologico. Prosegui la lettura »

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Ritorno dalla frontiera – Prima parte

1885. Diversi anni sono passati dall’esaurimento degli ultimi bagliori nei setacci dei cercatori d’oro californiani, sostituiti dalle scintille dei mezzi meccanizzati della grande industria mineraria. E’ in quest’anno che Leland Stanford – ex-governatore della California e magnate delle ferrovie su cui tanti partecipanti alla grande corsa all’oro avevano viaggiato verso l’ultima frontiera – fonda l’omonima università a sud di San Francisco, in quella che più avanti prenderà il nome di Silicon Valley. 115 anni dopo, proprio da quella stessa università sembra essere partita una nuova corsa all’oro di direzione speculare alla precedente: popolata da attori che, ricchi di reputazione ed informazioni, ma affamati di asset e capitali, tornano dalla frontiera a colonizzare il mondo dell’economia reale come di quella finanziaria, puntando verso là dove tutto è iniziato: la East Coast, New York, Wall Street.

Un mito, quello della frontiera americana, che negli anni ’90 si rinnova con l’internet di massa e la new economy: si è scritto di come nell’immaginario statunitense alla lotta contro la wilderness, “la barbarie della natura e dei popoli”, subentri l’ideologia californiana e la sua promessa della salvezza attraverso la tecnologia. Quella che nello storico documento di Barbrook e Cameron procede attraverso l’alleanza tra hippies e yuppies, le classi sociali cruciali nell’emersione del paradigma dell’economia in rete e a rete, della finanziarizzazione e della conoscenza, unite dal collante del capitale di ventura. Ed un ritorno che parte dalle innovazioni introdotte nel cammino verso quella frontiera e dalle nuove energie che hanno il compito di sostenerne il paradigma produttivo: dove c’erano le ferrovie ora scorrono i cavi delle broadband, ed il petrolio di Rockefeller cede il passo alle energie verdi. Prosegui la lettura »

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The Battleground

John Perry Barlow ha affermato che Wikileaks è stato il primo campo di battaglia della grande infoguerra mentre le rivoluzioni arabe sono il secondo. E che soprattutto molti altri ancora ne verranno.

140 suggestivi caratteri da cui partire. Un trampolino di lancio per una profonda esplorazione che negli anni a venire riempirà scaffali di intere biblioteche e gigabyte di archivi digitali.

A partire dall’esplosione del Cablegate del dicembre 2010 fino alle rivolte che stanno attualmente infiammando il Nord Africa, hanno cominciato a prodursi all’interno del sistema informativo globale fratture che sembrano ormai insanabili.

Dal punto di vista del ruolo di Internet esse producono un prisma analitico i cui cristalli irradiano sfumature cromatiche ancora indefinite ma sulle cui punte già si legge chiaramente la sconfitta di tante impostazioni ideologiche e credenze relative alla rete. E allo stesso tempo esse rappresentano una prima cartina al tornasole sugli orizzonti delle forme di militanza locale e globale on-line.

Oltre a causare uno sconquasso geopolitico che sta rapidamente mutando il volto delle relazioni internazionali, l’esplosione delle rivolte sociali sulle coste del Mediterraneo ha visto un ruolo significativo della rete all’interno dei processi rivoluzionari dispiegatisi nell’area. Nelle fasi insurrezionali e post-insurrezionali magrebine, Internet è emersa sia come dispositivo con cui lanciare l’attacco al potere costituito sia come strumento importante nella possibilità di costruzione di una società altra.

Ma per quanto ci riguarda è chiaro che questi fenomeni non possono e non devono essere guardati attraverso la rudimentale, puerile e spesso strumentale apologia che individua nei social media il carburante quando non addirittura (!!) la causa scatenante delle rivolte. Ci interessa invece, una volta di più, coglierne l’affascinante ambivalenza situata all’incrocio tra potenza e limiti della rete, dove in pochi click gli switch sociali instradano il flusso delle informazioni da un network all’altro. Prosegui la lettura »

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Wikileaks: frammenti di disordine globale

English Translation

Il momento storico in cui Wikileaks opera è decisivo: è quello della crisi dell’egemonia militare, economica, politica, culturale e tecnologica statunitense.

La caduta del secondo muro del ‘900 (Wall Street) riproduce le sue richieste di glasnost (“openness”) e perestrojka (“change”) perché persino nella caratterizzazione che la vulgata neoliberista le ha dato l’ideologia democratica ha subito una degenerazione. L’imperativo è la riforma del sistema, l’overstretching planetario degli Stati Uniti segna il passo dall’Iraq all’America Latina, l’esecutivo è debole e sotto tutela da parte di chi ambisce ad una risoluzione reazionaria, integralista ed autenticamente “statunitense” della crisi ideologica.

E dentro a questo scenario già complesso di suo comincia ad aggirarsi uno spettro che bisbiglia nelle orecchie di chi lo incontra: «Le informazioni in rivolta scriveranno la storia».

Spettro ci sembra il termine più adatto per descrivere la figura di Assange, sia per i suoi connotati fisici sia per l’evanescenza con cui è riuscito per diverso tempo a farla franca da polizie e servizi segreti di tutto il mondo.

Eppure la vicenda di WL (Wikileaks), di cui ancora molti capitoli dovranno essere scritti, produce ricadute estremamente concrete, tali da determinare fratture profonde nei reticoli tradizionali del sistema informativo globale, attraversati in questi giorni da movimenti di disaggregazione, scomposizione e riaggregazione. Fratture che rappresentano un punto di non ritorno, espandendosi a trecentosessanta gradi e non a senso unico. Prosegui la lettura »

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La polizia ci spia su Facebook? Tanto stupore per nulla

Stupirsi del fatto che la polizia usi Facebook per spiare la attività degli utenti in rete, è un po’ come stupirsi del fatto che all’ombra dei palazzi romani e delle emittenti televisive milanesi, gli esponenti del potere si dilettino a fare “bunga bunga” con giovani donzelle più o meno compiacenti. Solo i giornalisti del gruppo editoriale “L’Espresso” possono pensare che una notizia di questo genere abbia rilevanza o presenti davvero il benché minimo carattere di novità.

Minchia commissà! Ci stanno spiando su Feisbuc!

L’articolo firmato da Giorgio Florian (“La polizia ci spia su Facebook”) che tanto clamore ha destato negli ultimi due giorni, a nostro modo di vedere, è attraversata da una linea narrativa di una banalità disarmante, in cui la storiella dell’orso viene venduta come la rivelazione dell’anno.

Provando anche a dare una lettura della smentita a tempo record della polizia postale, fatta a mezzo ANSA alle ore 16.30 di giovedì, vediamo quali possono essere i piani su cui la questione va affrontata.

Il primo è quello più ovvio che, dal basso della nostra esperienza militante, abbiamo già abbondantemente sedimentato nel bagaglio delle conoscenze quotidiane e sperimentato sulla nostra pelle. L’abuso degli strumenti digitali nelle indagini di polizia è qualcosa che nasce con il cellulare, ma che ha probabilmente origini molto più antiche ed analogiche. È semplicemente ovvio che la polizia nella sua opera costante di sorveglianza sui soggetti “devianti” abbia la possibilità di fare (e faccia effettivamente) largo uso di intercettazioni (telefoniche, ambientali ed informatiche) non autorizzate in alcun modo dalla magistratura. Chiedetelo a qualsiasi avvocato un pò scafato e ve lo confermerà senza troppe remore. Se fate caso alle parole di Antonio Apruzzese, direttore centrale della polizia postale, noterete che il fatto in se non viene assolutamente negato. Semplicemente si attesta che i cybercop – bontà loro – si muovono «sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale». Il che però non significa che intercettazioni prive di valore probatorio in un’aula di tribunale (ovvero non utilizzabili nella formazione della prova) non possano essere fruttuosamente impiegate in attività di “prevenzione” e repressione. Prosegui la lettura »

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