Terminiamo la raccolta di testi che avevamo cominciato due settimane fa. Il #19o interroga il rapporto che intercorre tra movimento, soggettività, mainstream ed autocomunicazione di massa. Alcune ipotesi per il futuro.
Ritorniamo da dove eravamo partiti.
Treni vietati all’ultimo minuto che, dopo settimane di intense trattative, hanno il sapore di precettazione. 4000 uomini delle FFOO annunciati e schierati per le strade di Roma. Minacce, più o meno velate, più o meno esplicite, più o meno dirette, contro quanti si preparavano a partecipare al corteo. Disinformazione distillata prima con il contagocce e poi con le secchiate.
Eppure, nonostante tutto questo, nonostante il bookmaker più azzardato non avrebbe mai accettato scommesse su una partecipazione che andasse oltre le trentamila persone, a Roma il 19 ottobre saranno più del doppio quelle che decideranno di manifestare contro l’austerity. Gli organi d’informazione generalista registrano una secca sconfitta, come non ne avvenivano da tempo. Il lavoro messo pervicacemente in campo dalle redazioni nelle settimane precedenti per tenere lontana la gente dalla piazza e giustificare a priori le misure repressive che la polizia avrebbe adottato, si scioglie come neve al sole.
Ancora più critica, ed altrettanto fallimentare, sarà la gestione mediatica del post #19o. Il mainstream, per giustificare il mancato avvento della profezia che si auto avvera – quella che pretendeva, vaticinava ed auspicava di veder ridotta Roma ad un campo di battaglia – si fa in quattro. C’è chi stringe l’inquadratura su un particolare (i cinque minuti di scontri avvenuti davanti al Ministero dell’Economia) e concentra l’attenzione solo su quello, tentando maldestramente di nascondere il resto della scena dietro all’obbiettivo. Tattica numero uno della distorsione mediatica che i compagni di Senza Soste ci hanno spiegato con la solita brillante ironia: «L’80% dei commenti, degli articoli e delle foto di testate come Repubblica, ad esempio, hanno riguardato quei 5 minuti. Come se in una finale di un mondiale di calcio finita 4 a 0 il giornalista sportivo dedicasse 3 colonne su 4 ad un fallo laterale conteso». C’è chi, come Carlo Bonini, osservatore privilegiato ed ospite sulla plancia di comando della questura di Roma,spiega che il #19o è stata una gentile concessione dei vertici della polizia che hanno«lasciato giocare gli antagonisti». E c’è chi invece, troppo intento a fare sfoggio di un ricercato pathos narrativo con cui deliziare i suoi lettori, non si rende contro che la sua allocuzionetravalica il sottile confine tra patetico e ridicolo. È il caso di Guido Ruotolo, altro cronista di razza alla corte di Mario Calabresi, che definisce Anonymous la «nuova internazionale dell’antisistema che viaggia sul web», la «nuova Spectre». Lui intanto – merito della sapiente scelta retorica, forse giusto un filino anacronistica – è diventato la nuova barzelletta vivente nell’universo degli/le hacktivist*, secondo solo a Massimo Numa ed Erica di Blasi (che però va detto, giganteggiano e gareggiano in un altro campo di gioco, un’altra serie, un altro campionato).
Quello che doveva essere un ruscelletto si è trasformato in un fiume umano che ha tracimato gli argini che quotidiani e televisioni avevano predisposto per contenerlo. Ma, sopratutto, col suo passaggio ha lasciato mille rivoli di riflessione, uno dei quali tende proprio ad interrogare il rapporto che intercorre tra movimento, soggettività, mainstream ed autocomunicazione di massa.
Il movimento ha investito con largo anticipo sulla pianificazione di una campagna di comunicazione, distribuita su tutta il territorio nazionale. La scelta di orientarla fissando delle coordinate simboliche a maglie larghe non ha annacquato la radicalità che la piazza voleva esprimere. Al contrario, l’iconografia di Guy Fawkes è diventato un contenitore aperto che singoli e realtà organizzate hanno potuto riempire con le loro pratiche, il loro immaginario o le motivazioni (anche quelle individuali) che li spingevano a scendere in strada. Non di secondo piano è stato il coordinamento tra radio, portali di movimento, singoli mediattivisti ed utenti Twitter nella copertura della diretta del corteo. La ciliegina finale sulla torta l’ha messaAnonymous Italia. Gli hacktivisti con i loro attacchi a differenti siti governativi (minstero delle infrastrutture, delle finanze, cassa dei depositi e prestiti e corte dei conti), non hanno solo creato ulteriore attenzione e riverberato le istanze del #19o verso un pubblico composito ed eterogeneo: hanno anche ribadito una delle caratteristiche che hanno venato la preparazione alla giornata, ovvero il rapporto tra strada e rete e la centralità che questo ha oggi nell’agire la conflittualità sociale. Un nesso che ha trovato cittadinanza a Porta Pia fin dal primo minuto (anche se qualche gonzo dell’Huffington Post e di Wired sembra non essersene accordo) quando, accanto alle tende, veniva immediatamente attrezzato un piccolo media center.
Non bastano però i passi avanti fatti dal movimento in termini di comunicazione per spiegare la tenuta mediatica della giornata. Anche il rapporto tra composizione sociale del #19o e mainstream ha molto da raccontare. Certo, se il terrorismo mediatico di giornali e televisioni non è andato a segno, questo è da imputare anche all’assenza della loro audience di riferimento (SEL e Rifondazione in particolar modo), sia in piazza che nei percorsi di costruzione della giornata. Ed al contrario degli attempati vecchietti iscritti ai micropartitini dell’”estrema sinistra” (sic!), la composizione, sopratutto quella più giovanile, del #19o è cresciuta a pane, internet e moral panic: a forza di vedere il prestigiatore tirar fuori il coniglio bianco dal cilindro ha sgamato il trucco ed ha smesso di esserne stregata.
C’è però qualcosa di decisamente più significativo da prendere in considerazione, qualcosa che ha a che fare con le istanze del movimento e gli obbiettivi che questo si propone di conseguire. Il #19o è una lotta immediatamente legata al problema delle condizioni materiali e irrompe sul palcoscenico italiano come un processo politico che si configura come non mediabile. Dice NO e, in modo simile al movimento No Tav, non ha intenzione di relazionarsi alla controparte per discutere il come. Un fatto questo che ha profonda influenza rispetto alle modalità con cui quella composizione si va ad interfacciare con il problema della rappresentazione. Il ciclo di movimento dei contro vertici globali, pur avendoindiscutibilmente lasciato in eredità al mediattivismo una preziosa cassetta degli attrezzi, alla lunga è caduto nella trappola tesa dal mainstream ed ha stretto, a volte consapevolmente altre meno, un vero e proprio “patto con il diavolo”: i movimenti fornivano rappresentazioni compatibili con i criteri di spettacolarità richiesti dagli organi d’informazione ed in cambio ottenevano visibilità – sempre provvisoria e sempre revocabile – dalle redazioni delle grandi testate giornalistiche. Il #19o da questo punto di vista invece ha espresso una sana incompatibilità: non si sottrae alla narrazione, non lascia che questa resti nelle mani del nemico, ma allo stesso tempo dimostra di non avere interesse a contrattare la sua rappresentazione.
Perchè? Perché non ne vede il vantaggio: non gli basta produrre una critica intellettuale del sistema capitalista ed è impermeabile a quella visione ingenua che individua i media come cinghia di trasmissione tra politica istituzionale, società e movimenti (e che di questa critica dovrebbero farsi veicolo e catalizzatore, non si sa bene in virtù di quale illuminazione celeste). Se poi qualcuno avesse intenzione di continuare a dar credito a questa bislacca idea, liberissimo di andare a sbattere la testa dove più gli aggrada: una volta schiantatosi si renderà immediatamente conto che, con l’acuirsi della crisi, anche quegli ultimi angusti interstizi di agibilità politica una volta presenti nell’alveo istituzionale sono definitivamente chiusi. Non è un caso poi che, come affermato da diversi interventi a Porta Pia, in molti cominciano a pensare di“non aver più bisogno di loro” e di “potersi rappresentare da soli” grazie ad un set sempre più ampio e variegato di tecnologie digitali a disposizione. Complessivamente siamo di fronte ad una tendenza che non è nuova. L’avevamo già vista in azione, prima in Val di Susa e poi durante l’ultima tornata elettorale: per ampie sacche di popolazione il mainstream ha smesso di essere il media di riferimento. Anzi, un’esperienza come quella del M5S, piaccia o meno, ha cementato la propria identità ed il proprio senso di appartenenza anche a partire daun rifiuto diffuso dei media tradizionali. E una tendenza di questo genere viene accentuata ed amplificata da giornate come quella del #19o, sopratutto se consideriamo che interi pezzi di informazione riguardanti la giornata non sono rinvenibili nell’infosfera italiana. Semplicemente non ci sono. L’unico modo per accedervi è consultare i portali di movimento, i blog o le pagine sui social. Se pensate di aver avuto un deja vu leggendo queste righe non state sbagliando. Pur con le debite differenze, una dinamica simile ebbe luogo nel 2011 quando i maggiori organi d’informazione spagnoli scelsero deliberatamente di ignorare la nascita dell’#M15. Il risultato fu una crisi di legittimazione e credibilità che continua ancora oggi e che alla lunga ha obbligato i maggiori network d’informazione iberici ad inseguire il movimento sul piano dei contenuti e dell’agenda setting.
Un soggetto politico che si propone come non mediabile e mostra un vivace protagonismo sociale. Una compagine istituzionale travolta dagli scandali. Un circuito d’informazione mainstream sempre meno credibile, oggetto di atteggiamenti ostili (e, non dimentichiamolo, attualmente privo di exit strategy per porre fine alla crisi strutturale che lo sta dilaniando). Una percezione diffusa della possibilità e della necessità di tornare a farsi media.
È in questo campo di tensione che si apre un altro spazio politico da attraversare perché il #19o possa diventare un percorso. Un ambito dove l’uso collettivo dei social media vada ad interfacciarsi ad una loro critica costante che permetta di coltivare pratiche di autodifesa in rete. Un luogo dove il ruolo dell’immagine come motore dei processi politici venga discusso anche al di fuori di ristrette cerchie di specialisti. Una zona di autonomia dove creare e connettere network indipendenti, anonimi e distribuiti. Un terreno in cui gettare le basi per unacultura tecnologica popolare.
Streets and net: united we stand.
InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut
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