Israele lancia la sua dichiarazione di guerra a frequenze unificate e occupa militarmente il terreno fisico e quello digitale. L’armamentario di tecnologie, discorsi e dispositivi retorici impiegati in rete (e non solo) dall’Israel Defence Force durante l’operazione Pillar Of Defense contro Gaza. La terza ed ultima parte di questo articolo verrà pubblicata lunedì 31 dicembre.
Vedi la prima parte di Pillar of Defense chronicles: Gaza Youth Breaks Out
Pagina IDF Spokesperson – Facebook – Internet – Tempo asincrono
Scambi di artiglieria sul campo e di tweet in rete. Così si è aperto il sipario su Pillar of Defense. Prima il filmato dell’esecuzione di Ahmed Jabari, capo dell’ala militare di Hamas, riversato in tempo reale su Youtube e servito all’ora di cena con i titoli d’apertura dei tg serali. Poi una raffica di minacciosi tweet scambiati tra l’account dell’Israel Defence Force e quello delle brigate Alqassam. Quanto basta per catalogare alla sezione “panzane” l’opera completa del buon Pierre Lévy e dei suoi entusiasti emuli: una massa di intellettuali narcisisti che per anni hanno gettato fiumi d’inchiostro magnificando le capacità della tecnologia di livellare distanze ed incomprensioni tra i popoli. Oggi che la pace perpetua digitale non è più di moda ed anche i falchi cinguettano, quotidiani e testate giornalistiche preferiscono annunciare l’avvento della cyberwar ad ogni piè sospinto. Se però si scava sotto il ciarpame sensazionalista accumulato nei server degli organi d’informazione globali c’è da fare della buona archeologia e non è difficile afferrare il capo del filo rosso che accomuna frame, dispositivi retorici e tattiche comunicative dispiegate da Israele negli ultimi otto giorni.
Prima di tutto lo scenario. Come nel 2008, poco prima che le scie al fosforo lanciate con l’operazione “Piombo Fuso” squarciassero il cielo delle notti di Gaza, l’ aggressione militare alla striscia si scatena dopo gli omicidi mirati di militanti palestinesi. Poi la tempistica: negli ultimi 15 anni le più importanti operazioni militari di Israele sono sempre andate di pari passo con le scadenze elettorali. Non è un caso che Ronit Tirosh, leader del partito d’opposizione israeliano Kadima, abbia dichiarato che «un più alto numero di vittime avrebbe garantito [a Netanyahu] una maggiore porzione di seggi al Knesset». Terzo la scelta di additare Jabari come “terrorista”. Le cose stanno diversamente – il suo nome era stato indicato anche da Israele in quanto figura idonea al mantenimento dell’ordine e della sicurezza nella striscia – ma la sua collocazione in questo campo semantico ha precise funzioni propagandistiche ed operative: se Israele ha colpito un individuo macchiatosi di crimini atroci («È un terrorista no?» penserà l’ingenuo spettatore «Qualcosa deve avere pur fatto!») allora il suo intervento si configura come legittimo. Anzi appare come una reazione mirata, provocata da offese arrecate in modo pregresso dai palestinesi: basta cambiare una parola per trasformare l’aggressore in vittima. Infine non è un elemento di novità neppure il tentativo da parte di Tel Aviv di occupare territori del web considerati come strategici. Focalizziamo il nostro sguardo su quest’ultimo aspetto di Pillar of Defense.
«Il nemico non è un oggetto inanimato e impara dalle sue sconfitte» diceva Clausewitz. Questa è anche la storia dello statod’Israele. La guerra con il Libano nel 2006 fu un autentico disastro e non solo perché Hezbollah riuscì ad opporre ai tank israeliani un’efficace quanto inaspettata resistenza. Anche le armi di distrazione di massa si incepparono e le autorità israeliane si ritrovarono sotto il fuoco amico di tutti quei soldati che, una volta al fronte, contribuivano, attraverso mail e blog, a produrre una narrazione molto diversa da quella illustrata dal mainstream. Per non parlare del blitz portato a termine dalle teste di cuoio di Tel Aviv contro la Freedom Flotilla nel giugno del 2010. Una mattanza che il ministero degli Esteri tentò allora di giustificare pubblicando sul proprio account Flickr fotografie che immortalavano le “armi” trovate nella stiva della nave: materiale da campo, visori e binocoli per la visione notturna. Ricostruzione già di suo poco plausibile ed inficiata definitivamente in un secondo momento quando i metadati delle immagini rivelarono che gli scatti risalivano al 2003 ed al 2006. Poco cambia se la causa di tale incongruenza fosse frutto di un piccolo difetto degli orologi delle camere. Rimane un errore drammatico in un sistema mediatico dove vale il detto «la mia versione è tanto più credibile quanto meno lo risulta la tua».
Due punti di non ritorno, a partire dai quali i vertici militari israeliani hanno elaborato strategie di guerra non convenzionale e schierato truppe sul terreno dei social media. Un centinaio di profili Facebook, coordinati dal ministero degli Esteri e tradotti in inglese, francese, persiano, arabo e russo (oltre che naturalmente l’ebraico). Canali Youtube e profili Twitter per ogni ambasciata israeliana sparsa nel mondo. Infine l’arruolamento dei volontari: gruppi come il GIYUS (Give Israel Your United Support), lanciato dall’Unione globale degli studenti ebrei, il cui obiettivo è quello di contrastare il sentimento anti-israeliano sul web ed influenzare l’opinione pubblica. Come? Presidiando segmenti di rete, ritenuti particolarmente significativi in termini di estrazione di consenso, e aggredendo in maniera coordinata utenti filo-palestinesi all’interno di forum, blog e social network. E con numeri non di poco conto, se si considera che la cifra stimata di questi “troll di stato”, si aggira, secondo le dichiarazioni del ministero dell’immigrazione israeliano, intorno al milione. A quanto pare il problema del P2P, cioè della comunicazione da pari a pari, non è solo una questione di architetture di rete, ma anche di organizzazione, know how accumulato e risorse disponibili.
I risultati di questa strategia vedono i primi frutti quando l’operazione Piombo Fuso prende il via: al fronte tutti in riga, senza voci elettroniche non allineate a disturbare la sinfonia mediatica con cui Israele interviene sull’intero spettro mediatico per costruire un’immagine coordinata, positiva e vincente. Un copione che si ripete anche con Pillar of Defense di cui uno degli avamposti su Facebook è IDF Spokesperon: uno dei luoghi dove si è giocata, per usare la parole dell’analista politico Ron Pundak, la capacità di Israele di prolungare il conflitto «in base a come questo viene percepito a livello internazionale».
L’estetica della pagina è diversa da quella dei GYBO: se la bacheca dei giovani palestinesi è un guazzabuglio di solidarietà, dove da tutto il mondo ognuno arriva per aggiungere una pennellata più o meno significativa, quella dell’IDF presenta uno stile decisamente più asciutto e lineare. I contenuti proposti infatti, sia che si tratti di filmati, articoli o aggiornamenti in tempo reale sullo stato del conflitto, provengono quasi interamente dal blog e dal canale YouTube dell’esercito. Le forze armate israeliane sembrano puntare molto su questi vettori di diffusione perché, come dichiarato dal 26enne Sacha Dratwa, l’uomo a capo della divisione social media di Tel Aviv, «crediamo che la gente capisca il linguaggio di Facebook, il linguaggio di Twitter». L’idea è quindi quella di affiancare ai linguaggi mediali tradizionali quelli della rete, operando in questo modo una penetrazione più capillare nell’audience internazionale e di casa propria. Ed un occhio di riguardo sembra essere riservato alle generazioni più giovani. Scorrendo la timeline si può infatti incappare in un link che porta ad una pagina chiamata “IDF Ranks – The Ultimate Virtual Army”: si tratta di un videogame lanciato dall’IDF. I partecipanti possono iscriversi in modo semplice, autenticandosi attraverso Facebook o le altre piattaforme su cui l’esercito israeliano è presente. Scopo del gioco? «Diffondere la verità in merito all’esercito israeliano»: condividere, linkare, commentare o visitare contenuti web dell’IDF. Come in un vero corso d’addestramento l’aspirante recluta viene motivata e responsabilizzata. In perfetto stile 2.0, un banner ricorda che ogni click ha un impatto sulla realtà e che impegnarsi in questo gioco significa schierarsi, prendere una posizione: pubblicare propaganda filo-israeliana sui social network diventa così un momento di definizione della propria identità virtuale. L’immaginario liberogeno della rete viene mobilitato ed il mouse diventa una spada di luce in mano agli utenti con cui tagliare quella coltre fumogena assiepatasi intorno alla “verità” di Israele. C’è anche una classifica e chi riesce a realizzare i punteggi più alti sale di grado, fino a diventare generale di quest’armata virtuale. Una vera e propria forma di crowdsourcing applicato alla guerra, prodotto dall’incontro tra l’ideologia californiana e quella sionista. E l’intersezione tra l’ambito ludico e quello bellico è solo apparentemente stridente: in termini generali il gioco non è un banale passatempo né un ambito marginale nella costruzione di soggettività. In realtà il gioco, oggigiorno negoziato all’incrocio tra pratiche sociali e piattaforme tecnologiche, è un elemento che rientra appieno nei processi sociali di costruzione simbolica della realtà. Basta pensare alle categorie cognitive istituite da videogame come “Call of Duty” ambientati in Afghanistan o in non meglio specificate località mediorientali, dove i protagonisti sono eroici marine statunitensi impegnati nella war on terror. Qui invece si può impersonare un soldato virtuale dell’IDF impegnato sul fronte dei media. Nome in codice dell’operazione? “Hasbara”, termine che in ebraico significa spiegare. Spiegare al mondo il punto di vista d’Israele, modellando la rappresentazione del contesto di guerra con simboli ed informazioni immessi nelle proprie reti personali e di conoscenza. La logica sottesa ad IDF Ranks si basa su un semplice assunto: in ogni processo di comunicazione, perché il messaggio vada a segno, è fondamentale che il messaggero sia credibile. Ed è molto più probabile che gli indecisi (siano essi elettori israeliani o cittadini di altri paesi) prestino attenzione al parere di un “amico” su un social network che a quello di Netanyahu in televisione. È il principio del buzz marketing che ci porta a fidarci di quanti ci sono (o appaiono) più vicini. D’altra parte, si sa, la propaganda indiretta è sempre la migliore. Sopratutto se è «più rapida, economica e capillare» e si basa su vettori con «un potenziale di moltiplicazione molto maggiore» rispetto ai media tradizionali. Parola di Jamie P. Shea. Che non è un guru del web 2.0 ma il vicesegretario generale aggiunto della NATO.
«50 missili hanno colpito Israele negli ultimi tre giorni. Più di un milione di persone hanno meno di 60 secondi per mettersi al riparo prima che il razzo cada. CONDIVIDI questa immagine, perché i media mainstream non lo faranno».
Così recita la scritta sovrimpressa all’immagine di copertina del diario Facebook dell’IDF mentre Pillar of Defense è in pieno svolgimento. Nell’immagine due scie di fumo bianco dirette verso l’altra metà del cielo si alzano in volo da quello che potrebbe sembrare uno dei sobborghi di Gaza. L’immediatezza dell’impatto visivo indurrebbe automaticamente a pensare che la fotografia si riferisca agli avvenimenti di questi giorni. Non è così. Nell’angolino in altro a sinistra, una minuscola scritta dalla tonalità blu, solo leggermente più scura di quella del cielo sullo sfondo, avvisa che si tratta di un reperto d’archivio. La data di pubblicazione è quella del 20 giugno 2012. Riposta in qualche cassetto virtuale, quest’istantanea è stata rispolverata per l’occorrenza, come dimostra il numero dei commenti degli utenti, impennatosi visibilmente a partire dal 14 novembre 2012.
Quello descritto è solo uno dei tanti scatti che compongono l’album della pagina di IDF Spokesperson. Ce ne sono altre decine, tutti con soggetti diversi. Alcune raffigurano il sistema difensivo missilistico ultra-tecnologico “Iron Dome”, altre raccontano in cifre l’andamento delle operazioni militari nella striscia di Gaza, altre ancora pongono l’accento sulla costante minaccia dei razzi a cui sarebbero sottoposti i coloni. La fotografia e l’ordine cromatico secondo cui sono disposte evoca una gerarchia della percezione molto chiara che suggerisce allo spettatore uno schema interpretativo univoco. I colori predominanti sono il verde ed il rosso: il primo richiama Hamas ed la sua tradizionale bandiera, mentre il secondo, quello più acceso e visibile, è sempre associato ad azioni “terroristiche” imputate all’organizzazione palestinese. Composizioni di colori più tenui, dove bianco e blu vengono spesso accostati, fanno invece da cornice alle immagini correlate con l’IDF. Quasi tutte insistono con diverse formule sul concetto citato in precedenza: “condividi queste immagini, rendile pubbliche e visibili perché i grandi network informativi invece le oscureranno. Il diritto dello stato d’Israele di difendersi dipende anche da te”. Affermazioni di questo tipo indignano, vista e considerata la martellante frequenza con cui i grandi network internazionali hanno propinato scoop imbarazzanti durante l’intero arco del conflitto. La copertura realizzata dai quotidiani israeliani ha toccato a tratti vette altissime di puro surrealismo: Haaretz per esempio, a causa del poco materiale notiziabile proveniente dagli insediamenti, è arrivato a confezionare servizi sulla tensione psicologica a cui i cuccioli di cane dei coloni erano sottoposti per via del rumore dei missili. Le televisioni internazionali non sono state da meno. I filmati degli “inviati speciali” ad Ashkelon e Siderot sembravano tutti storybordati dallo stesso sceneggiatore: il racconto della caduta di un missile fatto con studiata concitazione, una corsa affannata verso il luogo dell’esplosione per creare suspence nel pubblico, l’occhio delle telecamera a posarsi su un buco nell’asfalto dal diametro di qualche decina di centimetri ed il laconico commento a dare il senso finale della sequenza «La vita dei coloni continua sotto assedio e la tensione resta altissima. A voi la linea studio». Anche affermazioni di questo tipo indignano. Ma indignarsi non serve. Non serve reagire, quanto piuttosto comprendere quali reazioni vogliono scatenare campagne mediatiche di questo genere. Perché media leggeri e pesanti da almeno 20 anni a questa parte, pur nelle differenze linguistiche, sfoderano un armamentario retorico, ben definito ed individuabile, che non lascia nulla al caso. Neanche in un ecosistema caotico come quello del web 2.0.
Nel libro “Bad News from Israel”, il Glasgow Media Group ha sciolto il groviglio di tattiche tessuto dal mainstream nella costruzione della notizia attraverso cui si costituisce quella dimensione esperienziale di percezione del conflitto israeliano-palestinese. Esse si dipanano in sacche di ignoranza parziale o totale dell’audience ed insinuandovisi diffondono informazioni tossiche che infettano l’opinione pubblica.
Una delle più tipiche è la rappresentazione dei coloni come comunità vulnerabili, isolate e cinte d’assedio dalla minaccia palestinese. È l’esatto contrario, considerato che Gaza, la zona più densamente popolata della terra, viene soffocata da anni dall’embargo israeliano ed è quotidianamente obiettivo di attacchi militari. Nell’immagine che vediamo a fianco invece la prospettiva viene rovesciata ed è il territorio della striscia a rappresentare il centro di propulsione di una minaccia che promana in modo concentrico verso l’esterno.
Sappiamo che nella stragrande maggioranza dei casi è la popolazione civile ad essere oggetto dei raid israeliani. Eppure questi vengono rappresentati come operazioni chirurgiche, limitate a bersagli mirati facenti parte della leadership di Hamas ed escludenti la popolazione nel suo complesso, anche grazie all’alta densità tecnologica che li caratterizza. In questo senso non è un caso che il primo video diffuso di Pillar of Defense, sia stato proprio quello dell’esecuzione di Jabari ripresa da una telecamera satellitare ad altissima definizione, sinonimo ed espressione di alta densità tecnologica. Un concetto ribadito anche nell’immagine a lato, dove l’IDF spiega quali siano le tecniche impiegate per “minimizzare” le perdite civili tra la popolazione di Gaza: oltre ai raid mirati vengono citati anche il lancio di volantini e le telefonate ai proprietari delle abitazioni situate nelle vicinanze dei bombardamenti. Al netto che tali telefonate si configurano di fatto come degli ultimatum («lasciate la vostra casa entro 120 secondi o morirete») e che nonostante gli “sforzi” profusi le perdite palestinesi rimangano di gran lunga superiori rispetto a quelle israeliane, questa tattica introduce un altro discorso tipico della propaganda bellica ovvero quello della disumanizzazione del nemico. Un avversario che non si preoccupa di ridurre le perdite civili ed è indifferente alle sorti della popolazione coinvolta suo malgrado nel conflitto, sia essa quella palestinese o israeliana.
Un’idea ribadita anche dalle due immagini qua sopra che richiamano apertamente uno dei leitmotiv più classici dell’informazione in tempo di guerra, ovvero quello degli scudi umani: si tratta di una rappresentazione che svolge due precise funzioni. Da una parte assurge al ruolo di giustificazione qualora i “missili intelligenti” dovessero toppare, colpendo strutture non militari e facendo strage di civili. Da un’altra contribuisce ad aggiungere pennellate al ritratto del nemico, dipinto, non solo come vigliacco, ma anche come essere irrazionale: come può Hamas dichiararsi movimento di resistenza se con le sue azioni contribuisce a far uccidere coloro chedichiara di voler proteggere? Così facendo mostra il suo volto ferino e predatorio, contro cui l’unica alternativa possibile è la difesa. E questo, nel discorso elaborato dall’IDF sembra essere tanto più vero grazie ad un’operazione di completa decontestualizzazione storica delle ragioni del conflitto, ridotto alla cifra dei missili lanciati contro le colonie negli ultimi 12 anni. Le nefandezze compiute dall’esercito israeliano vengono completamente rimosse mentre è rafforzata la rappresentazione di assedio protrattosi nel tempo ai danni della popolazione civile. Ne deriva così implicitamente il diritto inalienabile di Israele a “difendersi”. Un tema questo che attraversa in modo costante, quasi ossessivo, la pagina Facebook dell’IDF: non è un caso la particolare rilevanza assegnata alla tecnologia di intercettazione missilistica Iron Dome. Pillar of Defense viene così presentata come un’operazione difensiva nonostante al termine delle ostilità i morti israeliani saranno 5 mentre i palestinesi ne registreranno 170 oltre a 1270 feriti, 10000 sfollati, 300 case distrutte e danni all’economia per più di 50 milioni di dollari.
L’invito a condividere queste immagini contro la “censura” dei grandi conglomerati mediali globali non ha solo lo scopo di ampliare il raggio e l’impatto della propaganda filo-israeliana, ma è un elemento fondamentale nella costruzione dei dispositivi retorici che raffigurano Israele come doppiamente vittima: da una parte della minaccia palestinese e dall’altra del disinteresse alla sua causa da parte della comunità internazionale. Un pensiero sintetizzato due anni fa dall’allora portavoce del ministro degli esteri Yigal Palmor, quando, presentando al quotidiano israeliano The Marker la nuova strategia di Tel Aviv per occupare anche il terreno dei social media, affermava: «Visto che nessuno mi concederà neppure 10 minuti alla CNN per spiegare il contesto legale e diplomatico in cui prendiamo le nostre decisioni, la maniera più efficace per raggiungere le persone interessate al tema è utilizzando i social network».
Occupazione del territorio fisico e di quello digitale. Pillar of Defense, a dispetto del nome in codice che l’ha battezzata, è stata, anche dal punto di vista comunicativo, un’aggressione crossmediale su tutte le frequenze. Il tentativo di soffocare la voce palestinese è passato attraverso una rosa di tattiche, alcune delle quali assai tradizionali. Uno dei media center di Gaza è stato più volte colpito dai missili dell’aviazione di Tel Aviv e due cameramen di Aqsa TV sono stati uccisi. L’AFP (Agencie France-Presse) ha dovuto chiudere i suoi uffici a Gaza a causa dei bombardamenti, lasciando la zona praticamente sguarnita di personale internazionale in grado di testimoniare quanto stava accadendo. La furia dell’IDF non ha risparmiato neppure l’etere: anche le frequenze radio della striscia sono state invase. Le ricetrasmittenti per lunghi intervalli di tempo hanno riverberato in loop un un unico semplice messaggio: «State alla larga dai membri di Hamas». Un tentativo di limitare i danni alla popolazione civile o di incitare alla rivolta? Né l’una ne l’altra: solo uno sprovveduto potrebbe pensarlo. Al contrario, si è trattato di un’ennesima forma di attacco, in questo caso psicologico, per prostrare i nervi della popolazione in stato d’assedio. Il medium è il messaggio. E afferma la soverchiante superiorità tecnologica israeliana. Che si sarebbe potuta affermare anche attraverso il taglio completo delle linee internet dentro la striscia. Ma quando l’esercito israeliano ha annunciato di voler giocare questa carta ha attirato l’attenzione di una terza entità. Anche lei pronta a dare battaglia.
(continua)
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Approfondimenti
- IDF Spokesperson: pagina facebook dell’esercito israeliano per le public relations.
- IDF Blog: il blog ufficiale dell’esercito israeliano
- IDf Ranks: il videogame dell’esercito israeliano
- Come rispondere alla propaganda israeliana: di Alain Gresh sulla complicità dei media nei confronti della propaganda israeliana.
- Infiltrazione congnitiva: apparso su “Barack Obush“, edizioni Ponte delle Grazie, 2011 di Giulietto chiesa e Pino Cabras. Sul fallimento mediale di Israele durante la guerra in Libano del 2006.
- Stragi di Gaza. La verità manipolata da modelli comunicativi articolati: un articolo di Niquelapolice che spiega nel dettaglio i particolari con cui viene costruito il modello di propaganda di guerra israeliano.
- The ‘kids” behind IDF’s media: un’inchiesta di TabletMag sulla divisione social media dell’esercito israeliano.
- Israel’s web war declaraion. Hasbara goes www!: lista completa di articoli sulle strategie dispiegate da Israele sul web
- GIYUS calls Jews of world to web duty: l’Unione Globale degli studenti ebrei all’assalto del web arabo
- “In Kosovo la NATO ha imparato a parlare”: intervista a Jamie P.Shea, vicesegretario aggiunto della NATO, apparsa su Limes, Anno 4 n.1, pp.139-144
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