La pubblicazione del trailer del film The innocence of Muslim sta lasciando solchi profondi nella strategia delle transizioni democratiche made in usa. L’assalto alla sede diplomatica statunitense in Libia è arrivata fino in rete. E l’incendio più che ad infiammare i paesi arabi, sembra divampare nella Casa Bianca ad un passo dalle elezioni.
Dopo i fatti che l’11 settembre hanno visto in Libia la morte di otto persone, compresa quella dell’ambasciatore statunitense Chris Stevens, la Casa Bianca si è immediatamente attivata per limitare i danni anche in rete. E venerdì, mentre due navi da guerra incrociavano nel Mediterraneo dirette verso le coste libiche, a Washington la corazzata del Dipartimento di Stato cominciava le grandi manovre e dirigeva la prua a dritta su Google. Obiettivo della missione: far rimuovere da Youtube quel video che tanti imbarazzi stava causando all’amministrazione statunitense. Ma a Mountain View non ci stanno. No, quel filmato, dicono, non viola le nostre policy. E resta dov’è. O quasi, perché lo spazio dei flussi di informazione ha una geometria variabile.
E così all’alba di sabato il video risulta accessibile in diversi stati tra cui Arabia Saudita, Malesia, India ed Indonesia. In tutti questi casi il dispositivo di geo localizzazione di Google che regola la distribuzione dei contenuti sul suo network globale – per intenderci, quello che impedisce la visualizzazione di un video musicale in un dato spazio giuridico laddove venga rilevata un’infrazione delle leggi locali sul copyright – è entrato in azione su richiesta di tribunali locali che hanno segnalato il trailer di “The Innocence of Muslims” come contenuto illegale. Ma in Libia ed Egitto, l’iter per impedire l’accesso alla clip ha seguito sentieri diversi: non il frutto di una richiesta formale inoltrata dalle autorità del Cairo e di Tripoli, né, come abbiamo già detto, il risultato della violazione di quel regolamento privato, istituito dalla stessa Google, che regola la vita negli ecosistemi informativi di sua proprietà. Si tratta al contrario di una decisione eccezionale posta in essere autonomamente dai vertici di Google. Uno strappo alla regola che apre però uno scivoloso spazio politico in cui diversi attori si muovono con circospezione.
Mountain View da una parte lancia un segnale forte, riconfermando il suo ruolo di primo piano nei processi di governance globale ed affermando implicitamente che se non sono stati gli assalti degli hacker governativi cinesi o delle potentissime lobby del copyright a farla desistere dalle sue posizioni, non saranno certo delle sommosse di piazza (numericamente limitate e di scarso radicamento sociale, quand’anche di forte impatto mediatico e politico) a farle cambiare idea. Da un’altra però cerca evidentemente di trovare una quadra con gli alti papaveri di Washington, con cui è in debito di più di un favore (si pensi per esempio al via libera dato dalla FCC per lo smantellamento della Net Neutrality o alla velata minaccia di veto presidenziale annunciata da Obama qualora leggi come SOPA e PIPA fossero state approvate dal senato e dalla camera). Va ad ogni modo rimarcato come la sua decisione, sopratutto per ciò che concerne la Libia e l’Egitto, non sia priva di contraddizioni. Come sostenuto da Jillian C. York, considerato anche quanto accaduto durante le rivolte del 2011, «è una vergogna che una multinazionale occidentale si erga ad arbitro di ciò che i cittadini di questi paesi possano e non possano vedere on-line». E questa volta a cavarla dall’impaccio non saranno brillanti operazioni di marketing come l’inserimento della funzione di blurring (l’oscuramento dei volti dai filmati) nel pannello di controllo degli utenti.
Pur non avendo centrato l’obbiettivo di far rimuovere il video dello scandalo dalla piattaforma di videosharing, i movimenti salafiti – a dispetto dei partiti di ispirazione islamica moderata, neo-alleati degli Stati Uniti nello scacchiere Nord Africano – dopo essere stati soffocati dalla primavera araba, hanno tratto una boccata di ossigeno da questa vicenda, raccogliendo dal terreno dello scontro un’insperata agibilità politica e mediatica.
Ma a trarre vantaggio da questa vicenda sono stati anche diversi governi, fautori di politiche decisamente liberticide in materia di regolazione delle libertà digitali. Pakistan, Sudan e Bangladesh (ma la lista potrebbe allungarsi nelle prossime settimane) hanno trovato insufficiente l’inibizione all’accesso del video incriminato. Dopo aver visto disattese le loro richieste di completa rimozione del filmato sono passate al contrattacco: l’intero network di Youtube risulta attualmente non raggiungibile per gli utenti di questi paesi. E la Russia, che fino a questo momento era rimasta al balcone, ora si affaccia con più decisione su questo scenario, cercando di trarne alcuni benefici. Parole chiarissime quelle pronunciate dal ministro dell’informazione Nikolai Nikiforov «Qui si scherza, ma a causa di questo video il 3-5 novembre in Russia può essere bloccato del tutto YouTube». Ed in effetti c’è poco da ridere. Il nuovo discusso disegno di legge firmato da Vladimir Putin (che aveva portato allo sciopero della Wikipedia russa quest’estate) prevede l’introduzione di un singolo registro di domini ed indirizzi internet volto ad identificare e segnalare i siti che contengono informazioni vietate dalla legge. Una volta inseriti in questo registro c’è poca scelta: o si rimuove il contenuto illecito o l’accesso al sito viene impedito direttamente dai provider locali. Un buco nero in cui ora rischia di finire anche Youtube a causa del film girato da Alan Roberts. Con tanti ringraziamenti delle autorità del Cremlino (un carico di lavoro minore in termini di sorveglianza degli spazi digitali) e dei social network autoctoni (che potrebbero vedere un’impennata di utenti sulle loro reti una volta tagliato fuori il tubo).
Paradossalmente la strenua difesa della libertà di espressione da parte di Google (che in realtà è strenua difesa del suo potere decisionale all’interno dell’ecosistema informativo di sua proprietà) sta accelerando processi già avviati di balcanizzazione e chiusura della rete. C’è da chiedersi se gli echi di questa tendenza possano arrivare anche fin nel cuore della vecchia Europa. Pur essendo troppo presto per rispondere a questa domanda va rilevato come nella giornata di mercoledì alle 18 Facebook ha rimosso dal profilo del settimanale Le Point la vignetta satirica che raffigurava Maometto a sedere nudo, pubblicata per solidarietà con il sito web del settimanale satirico Hebdo, oscurato da hacker fondamentalisti.
Ma il paradosso arriva fino a Washington. E bussa direttamente alla porta delle residenza più altolocata del District of Columbia. Di nuovo, e questa volta a cinquanta giorni dalle elezioni, l’amministrazione Obama si trova a sbrogliare contraddizioni relative alle libertà digitali che da sempre ne hanno accompagnato la parabola. Quattro anni fa un’elezione presidenziale straordinaria, tutta all’insegna di un change che trovava la sua ragion d’essere anche in forme di partecipazione e mobilitazione attivate dal basso attraverso la rete. Poi, una volta in carica, l’elaborazione di nuove forme di “diplomazia digitale” (a volte efficaci, altre meno) che segnano sopratutto un momento di cesura storica rispetto all’impostazione unilateralista nella politica estera dell’epoca Bush: ascoltare, esercitare attrazione, persuadere e cooptare quanti più soggetti possibile nella rete globale di dominio statunitense. Soft e smart power diventano (almeno nei discorsi ufficiali, come quello pronunciato al Cairo) le nuove parole d’ordine. Gli attori privilegiati in questa strategia? Ovviamente le grandi imprese dell’Information Communication Technology che diventano partner commerciali e politici. Ma trasparenza e libertà d’espressione (usate per esempio come teste di ponte contro la Cina per intaccarne l’immagine e favorire una penetrazione delle grandi internet companies all’ombra della grande muraglia) hanno un prezzo da pagare: e questa volta a presentare il conto non è Wikileaks o il nemico pubblico numero uno Julian Assange, ma Google, uno dei più importanti alleati della strategia di smart power messa in piedi negli ultimi anni dal Dipartimento di Stato.
Una contraddizione percepibile anche nelle parole di uno dei maggiori artefici di questo nuovo paradigma teorico per il potere americano nel XXI secolo. In un’intervista rilasciata ieri a Repubblica Joseph Nye si è chiesto se «davvero vogliamo che siano gli stessi social media a stabilire cosa è libertà di espressione e cosa no?». Un cambio di rotta davvero sorprendente se si considera come proprio Nye, da circa dieci anni a questa parte, ne abbia magnificato il ruolo (insieme a quello dell’industria cinematografica di Hollywood) eleggendoli a vettori dei valori americani nel mondo. E altrettanto sorprendente è la canea delle voci di opinionisti ed intellettuali – resisi improvvisamente conto del valore assunto dalla policy di un’azienda privata negli affari internazionali – che si leva indignata per richiedere a Google trasparenza e sistemi di governance distribuita: un problema che fino a ieri sembrava interessare solo qualche manipolo di attivisti determinati a contrastare il saccheggio dei dati personali di milioni di persone, operato sistematicamente dalle multinazionali della Silicon Valley.
Infofreeflow (@infofreeflow) per Infoaut
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