Prendiamo la parola in merito al dibattito sviluppatesi nelle ultime settimane su una mutazione in senso mainstream di Twitter in Italia. Un’urgenza dettata dall’importante ruolo rivestito dai social media nelle mobilitazioni degli ultimi mesi, in particolare quelle NoTav.
Sembrava un battibecco tra fringuelli. Invece era una questione di galli nel pollaio. Molto più numerosi e grossi di quanto uno si potrebbe aspettare.
Pietra dello scandalo il flame tra Guzzanti, Fiorello e Jovanotti. Se altrove il gossip e le ruggini on line tra star rappresentano uno dei piatti classici serviti al tavolo dell’intrattenimento quotidiano, da noi è forse la prima volta che una controversia sui social media tra i protagonisti del jet set italiano trova spazio tra la righe e le frequenze del mainstream. Effetto assicurato. Rete italiana in fibrillazione e sbrodolante di riflessioni ed opinioni ad ampio ventaglio: dalle guide sull’utilizzo di Twitter che richiamano all’ordine gli apostati appena sbarcati sulla piattaforma di microblogging alle dotte discussioni tra “esperti” che si interrogano sulla vexata quaestio: Twitter è un social media?
Ma la trasformazione della geografia mediatica italiana (e nello specifico di Twitter) non è cominciata l’altro ieri con una baruffa tra personaggi famosi. È un processo in corso da diverso tempo, accelerato da una pluralità di spinte e dal protagonismo di diversi attori.
Una delle primissime cause che ne stanno alla base? Ovviamente l’esplosione del mercato degli smartphone. Senza dover scomodare la santa trinità Android-Iphone-BlackBerry, oggi se compri un cellulare (anche quelli ultra low-cost che viaggiano su UMTS) ci trovi dentro Twitter. Che, poco alla volta, anche qui da noi, sta diventando un segmento importante di un’audience che vede nei social network una fonte di informazione ed intrattenimento sempre più importante.
Non sembrano essere solo gli spin-doctor dei VIP ad averlo capito se anche alcuni degli editori più tradizionali iniziano ad individuare il terreno degli smartphone come nuova linea dello scontro lungo cui concentrare le proprie forze ed App. Un esempio è Mediaset, che in pompa magna e sotto lo sguardo assopito di un Napolitano non esattamente a suo agio con le nuove tecnologie, ha presentato la sua applicazione per “telefonini intelligenti” targata TgCom.
Ma tornando alla piattaforma di microblogging, Twitter sta iniziando una fase di socializzazione già sperimentata da altri media e forme di rapporti economici in passato. È un po’ la storia della new economy a dire la verità: l’utenza si allarga da un pubblico “specialistico” – fine conoscitore dei suoi comandi avanzati, usi creativi e netiquette – ad una massa a cui di tutto ciò nulla interessa, per la quale nel migliore dei casi il retweet è fare propria l’opinione del tweet originale.
Le recenti flame hanno solo visto aggravarsi un trend che notavamo già in passato: non solo parallelamente ai profili storici di Twitter, da quelli affermati di movimento ai micro diari personali, sono nate delle twitstar liberal, ma l’ingresso in massa di personaggi pubblici dello spettacolo e dei media mainstream ha prodotto un ingresso altrettanto di massa di un’orda acritica di fanboy e fangirl, la cui voglia di confronto non sembra maggiore di quella dei commentatori alle notizie del Corriere o de La Repubblica. Una dinamica che in parte sembra ripetere lo sbarco di Grillo in rete, la sua presa di protagonismo grazie anche al capitale reputazionale accumulato (e poi reinvestito nella sua discesa in politica) e la riconfigurazione del pubblico dei suoi seguaci.
L’eterno ritorno degli old media
Per il giornalismo nostrano fino a qualche tempo fa il rapporto con i 140 caratteri era poca cosa. Si riduceva nella maggior parte dei casi ad un corollario di costume, ad una presa d’atto che il colore del nostro tempo aveva assunto altre tonalità. Alla narrazione degli eventi storici che hanno punteggiato l’ultimo anno, ha fatto da cornice un’interminabile sequela di articoli che puntualmente arrivavano a raccontare la frenesia dei social network scatenatasi a ridosso della morte di Bin Laden, della fuga di Ben Ali, dei saccheggi di Londra o delle dimissioni di Berlusconi. Twitter è stato comunque in prima pagina come spaccato soggettivo delle reazioni del pubblico.
Ma le cose cominciano a cambiare. Ed il conglomerato mainstream di casa nostra getta lo sguardo ad altre latitudini (oltre oceano ed oltre manica) cercando di assumere i social media come fonte di legittimazione oltre che di vettore informativo.
Le battaglie referendarie di giugno e le lotte contro la TAV hanno mostrato il fianco scoperto del nemico: ai meccanismi inceppatisi della televisione generalista si è aggiunta la totale mancanza di presa sui social media da parte del mainstream, la sua incapacità di sedimentare linguaggio e senso comune su quel terreno di scontro. L’affondo della neutralizzazione mediatica (ricamata grossolanamente sull’evocazione dell’onnipresente nemesi del black bloc in Val Susa) ha mancato il colpo. Una lezione per il nemico che ha cominciato a metterla in pratica.
Da luglio in poi lo sbarco di grandi firme su Twitter si è trasformato ben presto in un’emorragia di reporter ed inviati, direttori e vice-direttori di testata. A volte con risultati assai discutibili: qualche consulente dovrebbe spiegare al vice-direttore del Carlino che proprio a nessuno interessano le lamentazioni in 140 caratteri di un vecchio trombone; altre seguendo una logica ed un’impostazione più mirata: le redazioni locali di Repubblica, per esempio, stanno strutturando i loro account a partire da una mappatura dei profili e delle community più influenti che già esistono su un territorio e con cui entrare in relazione.
Questo significa che, come afferma Luca Alagna, «i media stanno diventando follower»? che «siamo di fronte ad un cambiamento che avviene dal basso e chi è in alto si deve adeguare»?
Tutt’altro.
Il passaggio alla logica dello stream e la capacità di informarne l’opinione pubblica richiede conoscenze, mentalità e sopratutto risorse. Per stare a galla e contare, che si tratti di un social network o di una piattaforma di blogging, c’è bisogno di know how, capitale reputazionale ed investimenti economici. Le voci si moltiplicano ma non assumono tutte lo stesso valore.
La recente inchiesta del Guardian sul ruolo svolto da Twitter nei riots che hanno infiammato Londra quest’estate lo ribadisce senza mezzi termini: fra i 200 profili che più hanno influenzato l’infosfera di Twitter dal 6 al 10 agosto spiccano i professionisti dell’informazione ed i grandi network editoriali. E la prima posizione assegnata all’account @RiotCleanUp non rappresenta un’anomalia, ma conferma questa tendenza, vista l’attenzione e lo spazio, riservato all’iniziativa promossa dallo pseudo-artista Dan Thompson, proprio dalle televisioni e dai quotidiani mondiali.
E lo stesso dicasi per l’infosfera di Twitter delimitata dai confini della lingua italiana. Le classifiche di Resonancers con bio e volti noti di scrittori, attori, giornalisti, cantanti e calciatori somigliano ad un mash up tra quelle di MTV e “Tv Sorrisi e Canzoni”.
La sfera pubblica di Twitter sembra allora essere soggetta a due movimenti, orizzontali e verticali, solo apparentemente contrapposti tra di loro: da una parte essa si dilata all’infinito mentre da un’altra produce una gerarchizzazione dei flussi di comunicazione e delle categorie di senso che vengono prodotte. Tutti parlano in un rumore di fondo che si fa sempre più assordante ma sono pochi quelli che riescono davvero a farsi ascoltare e ancora meno quelli in grado di tirare le redini del gioco.
Un gioco di sottrazione dell’immaginario che ricompone e riassorbe la molteplicità dei vettori informativi intorno a pochi centri propulsori, impoverendo così l’esperienza stessa vissuta dall’utente in rete.
Ma, detta per inciso, che il mainstream ed i suoi modelli di comunicazione stiano colonizzando il web, è una tendenza più generale rappresentata tanto dalla riaffermazione di vecchi modelli di business sui new media quanto dalle bolle prodotte dagli algoritmi di Facebooke e Google che circoscrivono in senso omofilo (l’inclinazione a parlare solo con chi ci somiglia) la relazioni degli utenti sul web.
Il rischio è che per i movimenti si ricreino ghetti telematici, comunicativi e di immaginario: a ciò vanno contrapposte semplificazione del linguaggio ed incisività, “pancia” emozionale e spinoza ironia; capire dove si giocano i meccanismi di socialità su Twitter per innervarli e produrre esodo dal discorso della classe dominante nei momenti di confronto, attorno alla cui rappresentazione mediale si gioca una vertenzialità permanente.
Smascherare i ventriloqui del buzz
Dicendo tutto questo non vogliamo attribuire a Twitter o ai social media una centralità nel panorama informativo italiano che di fatto (ancora) non hanno. E tanto meno vogliamo rieccheggiare il dibattito idiota, che pure ha luogo in certi ambiti di movimento, che contrappone media tradizionali e non, dimenticando una legge fondamentale della teoria dell’informazione. Ovvero che mai storicamente i nuovi media hanno sostituito quelli vecchi. Ne assumono il linguaggio e li trasformano, adattandoli alle proprie dinamiche, provocando allo stesso tempo una reazione dell’old che si reinventa a sua volta inserendosi in quella scia diffusa di senso.
Il mainstream insomma sta diventando partecipato e l’ecosistema informativo italiano è segnato da un sempre più accentuato livello di integrazione tra media generalisti e sociali.
Ma il “popolo della rete” non è solo un’ulteriore comoda fonte informativa cui attingere. A dispetto di quanto scritto fino ad ora, il sondaggio recentemente pubblicato di Demos-Coop sul gradimento dei media, ci dice come l’informazione su internet, sopratutto tra gli italiani più giovani, venga ritenuta più libera e quindi più credibile.
Appare quindi ancora ben salda nell’immaginario collettivo l’equazione che tende ad identificare le reti con la democrazia, che coltiva ideologicamente l’illusione di una contrapposizione bipolare tra ambienti comunicativi, nonostante questi siano di fatto sempre più popolati ed informati dagli attori di sempre.
Se la gente ha più fiducia nei blog e nei social network, perché privarsi di una mano di vernice fresca con cui ridare un tono di oggettività democratica al proprio metodo operativo ed al tempo stesso rafforzarne l’efficacia e la pervasività? È lo stesso principio su cui si basano le pratiche di buzz marketing virale: mi fido di chi è (o in questo caso appare) più vicino a me e che sento di conoscere.
E questo senza dimenticare che, dalle parti di Repubblica, qualcuno sta pensando di diventare un punto di riferimento per quella cyber-borghesia che «senza essere geek usa la Rete, che ne ha un’idea associata solo a stretti interessi personali che oscillano fra informazione ed intrattenimento, che deve il suo ingresso alla facilità di interfaccia ed al fatto che gli altri sono connessi». Una classe media digitale il cui processo di ascesa potrebbe vedere una brusca accelerata con il berlusconismo sul viale del tramonto (se non sul piano culturale almeno su quello economico).
Se questa è la strategia, i media nostrani dovranno raffinarla ed agirla in fretta, prima che altre volpi ben più smaliziate (vedi l’imminente sbarco della Huffington in Italia) vengano a fare un sol boccone di tutti i galli nel pollaio.
InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut
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