Wikipedia Italia scende in campo contro la cosiddetta legge ammazza blog. E per protestare entra in sciopero. Da 24 ore infatti le 800000 voci dell’enciclopedia libera risultano essere inaccessibili al pubblico. Una scelta che gli amministratori del sito hanno spiegato alla loro utenza con un breve ma significativo comunicato.
Sotto accusa è il comma 29 del cosiddetto DDL intercettazioni, in questi giorni sotto il fuoco incrociato di roventi polemiche all’interno della stessa maggioranza di governo.
«Tale proposta di riforma legislativa» afferma il comunicato di Wikimedia Italia «prevede, tra le altre cose, anche l’obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine»
Qualora questo nuovo dispositivo giuridico venisse introdotto «chiunque si sentirà offeso da un contenuto presente su un blog, su una testata giornalistica on-line e, molto probabilmente, anche qui su Wikipedia, potrà arrogarsi il diritto — indipendentemente dalla veridicità delle informazioni ritenute offensive — di chiedere l’introduzione di una “rettifica”, volta a contraddire e smentire detti contenuti, anche a dispetto delle fonti presenti.»
Un fatto che Wikipedia non esita a definire come «una inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza».
La protesta inscenata da Wikipedia Italia ha il sapore della prova di forza, giocata intelligentemente proprio nel momento in cui la tenuta del governo sembra minata da crepe che si fanno più vistose giorno dopo giorno. Pur non facendo appello diretto alla mobilitazione, Wikipedia ha deciso di sfruttare il suo brand e la sua centralità nell’odierna geografia dei servizi web per calcare un palcoscenico vastissimo ed incendiare ampli segmenti dell’opinione pubblica. Operazione che pare essere andata in porto se il trending topic di Twitter Italia registra fra gli hashtag più chiacchierati proprio quello dell’enciclopedia libera. Una conferma ulteriore arriva da Facebook dove pagine (“Rivolgiamo Wikipedia – No alla legge bavaglio”) ed eventi (Salviamo Wikipedia) creati nelle ultime ore sono stati accolti positivamente da decine di migliaia di profili (ma i numeri sembrano essere destinati a lievitare). E questo senza contare la raffica di agenzie stampa susseguitesi in serata e l’approdo della notizia sui grandi quotidiani in mattinata.
Un’operazione che più andrà avanti più potrebbe avere la capacità di mettere in evidenza, di fronte agli occhi di un pubblico assai vasto ed eterogeneo, l’anacronismo del DDL intercettazioni e la sua incapacità di misurarsi con quelle che oggi sono di fatto le nuove modalità di produzione del sapere. In questo senso la parte forse più emblematica del sopracitato comunicato è quella in cui viene affermato a chiare lettere: «Wikipedia non ha una redazione». Una dichiarazione che si sposa con la firma, posta in calce al comunicato, a nome de “Gli utenti di Wikipedia”. Come dire, nell’era dei prosumer, dove le figure di produttori e consumatori della conoscenza si confondono, meccanismi di regolamentazione dell’informazione come quelli previsti dal DDL intercettazioni arrivano fuori tempo massimo.
Semplificando si potrebbe dire che questa vicenda assume i contorni dello scontro culturale tra old e new media in atto ormai già da diverso tempo in Italia. È questo è in parte vero, anche a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa del deputato del PDL Cassinelli secondo cui «l’obbligo di rettifica riguarda solo i giornali on line e non i blog»).
Parole prive di senso se si pensa a come di fatto ormai, le due categorie tendano a sovrapporsi sempre di più ed in maniera sempre più sfumata. Si pensi per esempio al modello dell’Huffington Post, uno dei più influenti organi di informazione statunitense o anche alle home page di molti dei grandi quotidiani italiani, costellati da una miriade di “blog d’autore” sui più disparati argomenti e temi d’attualità.
Parole a cui fa da contraltare un breve tweet del fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, che bolla come “idiota” la proposta di legge che verrà discussa probabilmente la settimana prossima in Parlamento.
I confini di questa vicenda però vanno oltre la semplificazione implicitamente racchiusa nel dualismo (spesso invocato in modo acritico) che contrappone “old” e “new”, “mainstream” e contenuti autoprodotti. A fare da sfondo c’è infatti un processo di trasformazione del modello di comunicazione di alcuni dei più importanti media italiani (sia cartacei che televisivi) che sembra aver preso il via. Un fatto sottolineato proprio ieri da Riccardo Luna (l’ ex direttore di Wired Italia) in un articolo comparso su Repubblica ed altri siti. Anche se i tempi non saranno brevissimi (e non comporteranno affatto la sostituzione degli old media con quelli nuovi, ma semmai una reciproca contaminazione) il traguardo da tagliare è all’insegna di due parole d’ordine: “partecipazione” e “comunità”. L’intento è riconquistare audience, royalties sui diritti di proprietà e creare nuovi format pubblicitari di concerto con i grandi attori del mercato ICT. Unica grande assente in questa corsa alle forme di impresa “2.0”? Ovviamente Mediaset, che non sembra avere in questo momento le risorse, la capacità e tanto meno la volontà politica di abbandonare il vecchio modello di televisione generalista con cui ha costruito la propria egemonia negli ultimi 20 anni.
Dunque lo scenario è più complesso: uno scontro tra poteri economici, diversi modi di intendere i processi di creazione della conoscenza e del concetto di opinione pubblica. Ma anche un vecchio drago messo all’angolo che batte i suoi ultimi e disperati colpi di coda. Si tratta solo di capire chi alla fine scaglierà la lancia che ne trafiggerà il petto.
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