Stupirsi del fatto che la polizia usi Facebook per spiare la attività degli utenti in rete, è un po’ come stupirsi del fatto che all’ombra dei palazzi romani e delle emittenti televisive milanesi, gli esponenti del potere si dilettino a fare “bunga bunga” con giovani donzelle più o meno compiacenti. Solo i giornalisti del gruppo editoriale “L’Espresso” possono pensare che una notizia di questo genere abbia rilevanza o presenti davvero il benché minimo carattere di novità.
L’articolo firmato da Giorgio Florian (“La polizia ci spia su Facebook”) che tanto clamore ha destato negli ultimi due giorni, a nostro modo di vedere, è attraversata da una linea narrativa di una banalità disarmante, in cui la storiella dell’orso viene venduta come la rivelazione dell’anno.
Provando anche a dare una lettura della smentita a tempo record della polizia postale, fatta a mezzo ANSA alle ore 16.30 di giovedì, vediamo quali possono essere i piani su cui la questione va affrontata.
Il primo è quello più ovvio che, dal basso della nostra esperienza militante, abbiamo già abbondantemente sedimentato nel bagaglio delle conoscenze quotidiane e sperimentato sulla nostra pelle. L’abuso degli strumenti digitali nelle indagini di polizia è qualcosa che nasce con il cellulare, ma che ha probabilmente origini molto più antiche ed analogiche. È semplicemente ovvio che la polizia nella sua opera costante di sorveglianza sui soggetti “devianti” abbia la possibilità di fare (e faccia effettivamente) largo uso di intercettazioni (telefoniche, ambientali ed informatiche) non autorizzate in alcun modo dalla magistratura. Chiedetelo a qualsiasi avvocato un pò scafato e ve lo confermerà senza troppe remore. Se fate caso alle parole di Antonio Apruzzese, direttore centrale della polizia postale, noterete che il fatto in se non viene assolutamente negato. Semplicemente si attesta che i cybercop – bontà loro – si muovono «sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale». Il che però non significa che intercettazioni prive di valore probatorio in un’aula di tribunale (ovvero non utilizzabili nella formazione della prova) non possano essere fruttuosamente impiegate in attività di “prevenzione” e repressione.
Il secondo aspetto da trattare invece, riguarda l’ipotesi che vengano messe in atto tattiche di social engeneering (ovvero “infiltrazioni” all’interno dei gruppi “virtuali” basati sulla dissimulazioni di un’identità) su Facebook ed altri social network. Una “breaking news” vecchia come il protocollo TCP/IP.
Per rendersene conto basta partecipare ad un qualsiasi evento (pubblico e pubblicizzato) che IISFA (International Information Systems Forensics Association) organizza più o meno ogni anno in collaborazione con l’Università di Bologna. IISFA è un’associazione no-profit che si occupa di informatica forense ovvero di indagini contro crimini informatici e non, volte al recupero di informazioni dalla rete e dai computer dei soggetti indagati.
A questi raduni pubblici di cybersbirri non vengono svelati particolari segreti (come è ovvio che sia), ma partecipano scoppiettanti showman di fama consolidata (come il buon Matteo Flora) che, per guadagnarsi il loro tozzo di pane quotidiano, imbastiscono una sorta di performance in cui si illustrano rudimenti di data mining e principi di ricostruzione delle reti di relazioni personali dei soggetti attenzionati tramite l’ausilio di Facebook e di altri social network. Solitamente non è che emergano chissà quali rivelazioni eccezionali: semplicemente risulta chiaro, una volta di più, come Facebook sia fortemente sconsigliato per effettuare comunicazioni sensibili (né i profili privati, gli strumenti di chat o le caselle di posta del social network di Palo Alto sono ovviamente d’aiuto in questo senso). Detta in altri termini buona parte delle indagini poliziesche viene facilitata, e resa possibile nella stragrande maggioranza dei casi, sia dalla massificazione dello strumento, sia dal cattivo uso che i singoli ne fanno.
Bisogna però fare questa considerazione alla luce del fatto che Facebook è una struttura societaria in cui vengono investiti centinaia di milioni di dollari da aziende che si occupano principalmente di profilazione e advertising on-line. Questo perché l’architettura del codice di Facebook viene pensata e costruita in un’ottica tutta orientata all’estrapolazione massiva di dati dal profilo dell’individuo. Ecco dunque spiegato perché, come afferma Florian nel suo articolo, «gli sceriffi italiani cavalcano sulle praterie dei bit». Basta una breve lettura di David Lyon per capirlo, senza scatenare tutto ‘sto can-can.
Il terzo piano riguarda invece il fatto che Facebook possa aver siglato segretamente un accordo di cooperazione con la polizia italiana per rendere più rapida la succitata opera di sorveglianza. È ovvio che un accordo di questo tipo, qualora fosse portato alla luce, sarebbe una gatta da pelare non di poco conto per un’azienda che proprio sulla questione della privacy viene attaccata in maniera continuativa da diverso tempo. Ed è altrettanto ovvio che si tratterebbe di un accordo palesemente in violazione con le leggi vigenti in Italia. Secondo Alessandro Gilioli «stiamo parlando di una vera e propria perquisizione, espletata con la violenza del più forte». D’accordo, ma attenzione: non sarebbe nient’altro che la formalizzazione di una situazione posta in essere già da tempo, ben prima della nascita di Facebook stesso.
Siamo infatti dell’idea che il vespaio sollevato dall’articolo dell’Espresso non vada affrontato tanto “in punta di diritto” (quando mai in Italia lo stato di diritto ha rappresentato una soglia di non ritorno oltre il quale le forze di polizia non hanno osato spingersi nelle indagini?), ma possa piuttosto essere un’occasione di riflessione sulle condizioni materiali sviluppatesi negli ultimi vent’anni in seno al capitalismo informazionale.
È un contesto all’interno del quale dei soggetti privati (come i motori di ricerca, social network o provider telefonici) hanno accumulato un enorme mole di informazioni sui singoli, tale da permettere loro di esercitare un potere anche dai connotati marcatamente pubblici, sopratutto nel campo della comunicazione (nel nostro caso Facebook detiene l’accesso ad un archivio di informazioni personali talmente sterminato da far impallidire la STASI). Questo però non significa che tali soggetti non siano costretti ad una costante ri-contrattazione del loro ruolo con i poteri politici dei paesi in cui svolgono le loro attività commerciali, tanto più nell’era della “lotta al terrorismo globale”, dove il concetto di privacy è stato soffocato dalla simbiosi tra l’affermazione delle necessità economiche delle grandi corporation hi-tech e la cessione di fette di riservatezza ai governi in cambio di “sicurezza”. La trasparenza sociale degli individui è stata capovolta ed il suo baricentro sospinto in maniera asimmetrica e sbilanciata dalla parte del potere, anche grazie all’opera incessante di legittimazione della openness da parte delle ideologie di rete neo-liberiste. Gli “effetti collaterali” sono ad ampio spettro e vanno dalla collaborazione gomito a gomito tra polizia giudiziaria ed i grossi aggregatori dell’informazione fino alla messa in cantiere di progetti alla minority report resi possibili dal contributo di Google.
In questo panorama allora, cosa ci sarebbe allora di tanto eccezionale nel fatto che Facebook predisponga “una corsia preferenziale” d’accesso per gli investigatori italiani, quando il crackdown di Autistici di 5 anni fa aveva già messo abbondantemente in luce forme di complicità e connivenza tra operatori del mondo delle telecomunicazioni e forze di polizia? (Per chi se lo fosse dimenticato, all’epoca con la scusa di mettere sotto controllo una singola casella di posta la polizia, con il tacito assenso di aruba, il provider su cui allora erano situati i server di AI, aveva messo sotto sorveglianza migliaia di account elettronici riconducibili al movimento antagonista italiano tutto).
A voler essere provocatori rispetto al tono dei commenti delle ultime ore, ci sembra una questione di lana caprina il fatto che tali pratiche vengano ratificate o meno in maniera ufficiale, mentre è ben più rilevante che le condizioni materiali e politiche su cui essi poggiano e che rendono possibile una sorveglianza estesa sono già del tutto dispiegate.
Ridicola invece è la posizione dei lerci leccapiedi di Google in Italia (Punto Informatico), pronti a stracciarsi le vesti di fronte agli schermi translucidi dei loro iMac da 24 pollici all’idea che « certe violazioni della legge sulla riservatezza verrebbero così praticate con disinvoltura».
Parbleu! Qualcuno pensi alle donne ed ai bambini!
Era forse legale la chiusura delle centinaia di gruppi Facebook effettuate l’anno scorso sotto la pressione politica del Viminale e dei media di casa nostra? Erano forse state autorizzate da un qualche magistrato? Si trattava di sequestri preventivi regolarmente previsti dal codice penale? Ovviamente no, né pare consolante il fatto che allora si parlava di censura e oggi di sorveglianza.
Controesempio: perché si discute di cancellare il decreto Pisanu (un provvedimento che non ha avuto eguali negli altri paesi europei nemmeno negli anni più bui della guerra infinita, quanto forse nella ex-DDR, approvato anche dal centrosinistra) da un giorno all’altro? Ora come nel 2005, le nostre identità sulle reti wireless non sono “minacciate da malintenzionati pronti ad impersonarci”?
Ma veniamo a sapere che i soldi per la banda larga (libertà di navigazione) non ci sono, così una soluzione alternativa si dovrà pur trovare…e la sicurezza?
Non si tratta tanto di sottolineare l’incoerenza della volontà politica di una parte quanto di evidenziare, ancora una volta, l’assoluta sindacabilità ed effimerità della cosiddetta “legge” (e della buzzword della “legalità” che la incensa e la erige a totem monolitico) davanti alla costante ridefinizione dei rapporti di forza degli attori politici.
E non prendiamoci in giro. Che le forze dell’ordine italiane mettano in atto pratiche illegali in termini di sorveglianza è una banalità storica che tracima l’era digitale, le cui origini soggiacciono in una cultura poliziesca che trova la sua prima espressione nelle schedature politiche fatte dai Carabinieri su larghe fette della popolazione a partire dal secondo dopo guerra.
Certo che la crisi deve picchiare duro anche dalle parti dell’Espresso, perché per scrivere bagatelle di questo tipo e montarci sopra pure una bella polemichetta, vuol dire che ti pagano tre euro e cinquanta al pezzo e proprio non riesci ad arrivare a fine mese.
Quindi, scusate, ma è solo tanto stupore per nulla.
#1 di iff il Novembre 2, 2010 - 6:20 pm
Ciao Guido.
Ti ringraziamo per le considerazioni fatte e per averle rese pubbliche qua sul blog (molto meglio del “Mi piace” facebookiano e della sua binarietà). Ottima la correttezza usataci, ma in linea di massima non ce n’era bisogno (fatti un giro sui motori di ricerca e vedrai che l’articolo è stato già abbondantemente ripubblicato in diversi blog e portali). I testi che scriviamo sono politici ed hanno come finalità quella di suscitare dibattito, laddove questo è possibile, quindi se devi citare, ritagliare, riscrivere, fai pure. Ad ogni modo potremo forse impedirti di usare i nostri testi pubblici? Ovviamente no e non avremmo interesse a farlo. L’unica tutela che ci diamo è quella delle Creative Commons (che dal nostro punto di vista rimane insufficiente – vedi http://infofreeflow.noblogs.org/post/2008/11/30/copyfarleft-copyjustright-e-la-legge-ferrea-degli-introiti-da-copyright-oltre-il-copyleft-verso-dei-commons-autonomi/ – ma rimane per ora l’unico strumento utile da un punto di vista tattico) qualora qualcuno avesse la bella pensata di utilizzare i nostri contenuti a fini commerciali. Ma, non crediamo questo sia il tuo caso. 😀
Saludos e grazie ancora per la tua opinione!
IFF Crew – Laboratorio Occupato Crash! – Bologna
#2 di guido il Novembre 2, 2010 - 11:24 am
E’ la prima volta che ti leggo infofreeflow e mi piace! Nel merito di questo post, vorrei esprimerti la mia piena sintonia alla sensazione di noia e disgusto espresso per le odiose pratiche di organi di disinformazione paraistituzionale di regime come la Repubblica o l’Espresso, che banalizzano questioni serissime come quelle relative alla tutela del cittadino dallo Stato con ipocriti atteggiamenti di studiata meraviglia, in modo da poter affermare ancora che in Italia esiste ancora una opposizione e una libertà di stampa. La trappola è evidente, eppure è scoraggiante vedere come siano ancora molti quelli che accettano acriticamente tutte le notizie provenienti dal main stream… Poi ci sono momenti come questo, per cui ti ringrazio, in cui leggendo un articolo all’inizio di una mattina di lavoro uno si sente un po’ meno solo, malgrado tutto.
Ciò detto, anche se vedo già che i contenuti del tuo blog sono disponibili con licenza CC, ti scrivo anche per chiederti se non hai nulla in contrario con la mia intenzione di faree riferimento al tuo blog sul mio, magari riportando qualche stralcio del tuo articolo, ovviamente senza modifiche e con chiara indicazione di fonte, autore e link… Oltre ai complimenti, una questione di netiquette quindi.
In ogni caso ti ringrazio ancora per avermi dato questo piacevole sunto, questa mattina.
Ciao! Guido