L’ayatollah Maroni ed i cinesi del PD


Chi si nasconde dietro questa folta barba? E chi sono i figuri tutti uguali dietro di lui?

La notizia era nell’aria
già da qualche giorno, ma solo giovedì è esplosa tra roventi polemiche,
arrivando a toccare anche le inaccessibili vette del TG1 delle 20. Dopo
le frustrazioni del dirigente modenese del PD,
desolato dall’incapacità di una nomenklatura democratica politicamente
alla frutta, alla ribalta della cronaca è salito il “fu” gruppo di
facebook “Uccidiamo Berlusconi”, poi trasformato in un più tranquillizzante “Ora che abbiamo la tua attenzione rispondi alle nostre domande”.

Siamo
stati indecisi a lungo se prendere parola su questa vicenda che, nel
nostrano clamore che l’ha accompagnata, apparentemente è solo un
cartina al tornasole dell’incapacità trasversale alla classe politica
istituzionale di rapportarsi e leggere le tecnologie digitali, mentre
in realtà cela fra le pieghe alcune sottili dinamiche inscritte nel
frame mediale italiano.

Diversi elementi hanno comunque attirato
la nostra attenzione portandoci a delle riflessioni che ci sembra
importante condividere per dare un metro anche della direzione che potrebbe prendere la vita in rete nella penisola.

Ci sono due premesse che guidano tutto il nostro ragionamento.
La
prima è la focalizzazione della tragica situazione sociale ed
economica del paese che porta evidenti sul volto le ferite aperte della
crisi. Lungi
dall’essere ad un punto di svolta, un fatturato industriale in caduta
libera e
la drammatica realtà della cassa integrazione per un sempre maggior
numero di lavoratori, vanno aggiungendosi ad un crescente discredito
che classe politica italiana non sembra ormai in grado di
allontanare da sé.
La seconda è che la rete non è un media
(o comunque un canale neutro) ma un ambiente, contingente e dalle
caratteristiche mutevoli ed in evoluzione dinamica, organizzata su
rapporti di forza che derivano dalla costruzione del mezzo e
determinano il tipo di relazione, di prodotti, di creazioni che si
possono vivere e fare in questo o in quel network.

Il gatto virgola sotto scorta

Di tutte le curiose dichiarazioni pronunciate del ministro degli interni in merito a questa vicenda è senz’altro la più singolare quella per cui

«È stata messa in atto un’azione quotidiana e capillare di denigrazione del presidente del
Consiglio, che può portare qualche mente malata ad ipotizzare azioni di
questo tipo (il riferimento è ai gruppi apparsi su Facebook che
ipotizzano l’omicidio del premier, ndr)»

Certo può destare altrettanto stupore la teatrale angoscia con cui Maroni ha espresso l’incredulità per la possibilità che «qualcuno che possa esprimere l’intenzione di uccidere un’altra persona». Il ministro se ne faccia una ragione, perché tali figuri sono facilmente reperibili tra le fila di sgherri
che frequentano le sedi leghiste di Cividate al Piano e di altri
ridenti paesini della bassa. Non solo: molti ricorderanno che lo stesso
rampollo di casa Bossi (Renzo la trota), in compagnia del protegé del
Senatùr, Roberto Cota, e di altri personaggi eccellenti e
dall’incontestabile levatura intellettuale come “Attila il flagello di
Dio”, non molto tempo fa diede vita ad un raffinato gruppo Facebook
inneggiante alla tortura verso i migranti, in quanto forma di
“legittima difesa”. Ma si sa: per l’homus padanus
il migrante non è sinonimo di essere umano, ma di forza lavoro a basso
costo da macinare in nero fra mulini e fabbrichette del nord-est (in
merito a questa vicenda vi invitiamo a rileggervi le reazioni che ebbero allora i dirigenti del Carroccio)

Lasciando da parte gli psicodrammi da circo salta subito all’occhio la strumentalità con cui si è giocato con Facebook nelle ultime settimane. Prima il caso del dirigente PD, poi la scoperta
dell’ “odio su facebook”, sono stati i vettori di una campagna volta a
rappresentare un paese diviso ( pag 2 de “Il resto del Carlino” ed Naz.
di venerdì 16 ottobre) dove il conflitto politico si fa sempre più
aspro (mentre in realtà esso è a livelli assi minori di quelli che ci
si potrebbe aspettare), anche con punte di violenza indirizzate nei
confronti di alte figure istituzionali. Scenario la cui immanenza è
stata suffragata dalle interviste di un “molto preoccupato”
Pansa e da altri cani da tartufo del regime, pronti ad agitare lo
spettro degli anni di piombo, ormai prossimi nelle loro sciamaniche
visioni notturne.

The environment is so full of television, party
political broadcasts and advertising campaigns that you hardly need to
do anything. (JG Ballard)

In un’ intervista
rilasciata da Alessio Jacona a RaiNews24, viene fatto notare come siano
moltissimi i gruppi simili a questo, popolati di aggregati di
individui, che tra il figurativo ed il faceto si pongono l’obiettivo di
eliminare un pò chiunque (dal tronista Costantino fino al papa). Poiché
tali combriccole imperversano non è difficile trovarne di buone per
tutte le stagioni (o le necessità politiche del momento) e questo non
avviene da oggi, ma dal momento stesso in cui i social network sono
diventati uno strumento di comunicazione di massa.
Se ci si
domanda perché solo ora il caso esploda con tutta questa virulenza, si
può ad un primo livello ravvisare una chiara strumentalità insita
nell'”emergenza” social network odierna: uno dei tanti sotterfugi che
creando un clima “sull’attenti”, distrae il paese dai problemi che lo
stanno realmente affliggendo. Tutto ciò è reso ancora più caricaturale
dal fatto che la denuncia dell’esistenza di tale gruppo venga fatta da
esponenti di governo a più di un anno di distanza dalla sua nascita e
nel momento in cui gli iscritti erano già diverse migliaia (10000 per
la precisione).
Ritenere queste accolite virtuali una reale
minaccia sarebbe come prendere per buone le chiacchiere da bar di un
nutrito gruppo di vecchietti della festa dell’unità di Bologna che
qualche tempo fa vedeva nella quiescenza veltroniana una tattica per confondere le acque e preparare la rivoluzione al riparo da sguardi indiscreti
(testuali parole). Il fatto che questi cari vecchietti si fossero
convinti di tale bizzarra teoria e ne discutessero animatamente fra un
sangiovese ed un bianchino, non significa certo che essa rappresentasse
poco più che una pia illusione né che gli attempati ex-comunisti
passassero i loro pomeriggi lucidando ed oliando mitra stern nei colli
intorno a San Luca. È quindi quasi superfluo mettere nero su bianco che
a nessuno passò per la testa di dar credito agli arzilli vegliardi  ne
di cacciarli dalle allegre tavolate della piadina o dalle loro
bocciofile di appartenenza. Tanto meno si ritenne utile predisporre
provvedimenti legislativi che sanzionassero penalmente la chiacchiera
da bar.

«Abbiamo dato disposizioni perché il sito contenente minacce al premier
apparso su Facebook venga subito chiuso e denunciati alla magistratura
quelli che sono intervenuti»

La seconda parte dell’affermazione di Maroni se
da una parte può lasciare interdetti, sopratutto se si mastica un pò di
tecnologie di rete, mette in luce altri obiettivi forse meno evidenti.
A
differenza di quanto si è ritenuto per anni, Internet non rappresenta
affatto il luogo dove l’intermediazione informativa ha fine:
semplicemente, in essa tale funzione si trasforma e si moltiplica,
abbracciando uno spettro più ampio di soggetti ed entità.
Se
immaginiamo come una scala il percorso che l’utente deve compiere per
arrivare fino all’informazione desiderata, ad ogni scalino si può
metaforicamente far corrispondere un diverso mediatore che è
generalmente una tappa obbligatoria del tragitto: i computer ed i
browser stessi, l’infrastruttura fisica, il provider, i risolutori di
nomi ( Domain Name Server o DNS ), i motori di ricerca e molti altri
ancora.
Nel nostro caso specifico è il social network di Facebook a
svolgere la mediazione più rilevante in quanto piattaforma dove hanno
luogo le discussioni. È pacifico ritenere, come poi effettivamente è
stato, che l’azienda di Palo Alto esposta ad un ricatto commerciale
(anche data la recente apertura
a Milano di una sede per il Sud Europa) abbia messo in atto una qualche
forma di collaborazione con il governo italiano per arginare il
problema.
La questione è allora capire quale possano essere le
contromisure adottate: se da una parte pare politicamente suicida (sia
sul piano nazionale che internazionale) l’ipotesi di imporre
l’oscuramento di tutta Facebook ai DNS nazionali (pratica che
oltretutto in passato ha più volte dimostrato la sua inefficacia)
altrettanto improbabile è l’idea di una chiusura del gruppo, gesto che
scatenerebbe un immediato rifiorire di migliaia di cloni (magari anche
su altri network) sull’onda del passaparola fra utenti.

C’è
infine un ultimo aspetto interessante: l’asserzione del ministro in
merito alla volontà di denunciare coloro che hanno preso parte a questo
gruppo. Indipendentemente dalle dubbie fondamenta legali
di tale azione persecutoria, questa strada sembra irta di ostacoli per
via della dislocazione geografica dei server di Facebook (California).
Poiché la creatura di Marc Zuckerberg è soggetta alla legislazione
statunitense, l’ottenimento dei dati identificativi degli utenti
impiegherebbe mesi di tempo e dispendiose risorse. Questo senza contare
i tempi biblici previsti dalle rogatorie internazionali, gli attriti
derivanti dalle diverse regolamentazioni sulla privacy (che per quanto
labili esistono) e il successivo lavoro congiunto tra provider e
polizia postale da mettere in atto per risalire ai nominativi degli
“eversivi a faccia scoperta”.
Ma se pure il risultato di questo
lungo procedimento venisse portato a termine, attribuirgli
aprioristicamente il valore di elemento probatorio in un’aula di
tribunale non sarebbe da intendersi come fatto scontato: infatti larga
parte della dottrina giuridica tende a considerare l’indirizzo IP come
la targa di un’auto. Se un veicolo commette un infrazione stradale,
questo non significa che sia l’intestatario della targa ad averla
compiuta. Allo stesso modo l’indirizzo IP non è da considerarsi come
identificativo univoco del soggetto che compie la comunicazione.
Il
rischio concreto insomma è quello di fare tanto rumore (e di spendere
tanti quattrini) per ritrovarsi in mano un pugno di mosche.

Perché
allora Maroni fa tale dichiarazione? Perché si propone di giocare una
partita in cui, ci sembra realistico immaginare, egli sa di essere
perdente in partenza? La risposta che ci siamo dati è che il capo delle
forze dell’ordine, quand’anche non fosse un erudito conoscitore della
vita in rete è senz’altro un abile manipolatore del frame mediale che
nel contesto italiano è una macchina per la costruzione di realtà e di
governo del territorio.

Governare la rete

Se
diamo come appurata l’impossibilità (o quanto meno la poca convenienza
e quindi l’assenza di volontà politica) di intervenire direttamente
sulle strutture che veicolano il flusso di comunicazione e la vita in
rete, allora appare sensato collocare tale affermazione nel campo dei
dispositivi simbolici usati come mezzi di governo dell’ambiente
internet. Le dichiarazioni di Maroni infatti, poiché prive di senso in
termini di applicabilità e regolamentazione tecnico-giuridica, possono
essere lette in chiave di spettacolarizzazione politica. Muovendo le
leve del apparato mediatico, attivato da una fanfara di indignate
dichiarazioni eclatanti ed altisonanti (come il richiamo di Frattini
agli anni ’70), il baricentro del problema viene spostato, grazie alla
rappresentazione di un’esplosione di follia collettiva ed “estremista”
che in realtà, oltre ad essere un sentimento diagonalmente diffuso da
anni, nel caso specifico del gruppo “Uccidiamo Berlusconi” non è che un
innocua raccolta di barzellette, immagini, video, sfoghi personali,
discussioni, satira ed interrogativi sulla figura del premier.

I risultati ottenuti da tale meccanismo sono stati diversi.
In
primo luogo il relativo dibattito (se così si può chiamare) si è
concentrato su aspetti per lo più irrilevanti, i quali oltre che a
fungere da dispositivi di legittimazione politica non hanno nulla a che
vedere con quella che è la realtà dei social network.
In secondo
luogo, all’interno di Facebook stesso si è assistito ad una situazione
in continua evoluzione. In un primo momento è stata ottenuta la
rimozione della pietra dello scandalo, riassorbita all’interno di un
codice comunicativo accettabile e che ha già mostrato tutti i suoi
limiti (le dieci domande del quotidiano “Repubblica”). In seguito al
ritorno al titolo originale leggermente variato (“Uccidiamo Mister B?”)
nel gruppo si è scatenata una discussione (con una polarizzazione delle
posizioni a tratti feroce e tipica della virtual life) scivolata
sull’opportunità di mantenere o meno il termine “uccidiamo” e sul
significato che poteva assumere l’utilizzo di un punto interrogativo o
di un apostrofo.  Il che ci sembra paradossale, dal momento che il
ministro che ha sollevato tutto il polverone fa riferimento ad un
partito politico che trova fra i suoi punti più appetibili ed
identitari la secessione di una parte dello stato italiano.
Invece che farne una questione di ordine del discorso se ne è fatta una questione di ortografia.

È
interessante quindi osservare come l’enfasi mediatica  da un lato abbia
circoscritto la linea degli argomenti da trattare sviandola dal binario
che appariva più idoneo, e da un altro sia stata causa della
neutralizzazione del gruppo stesso, che esaurita la sua funzione
all’interno di un processo politico di mediatizzazione, viene relegato
al rumore di fondo dal quale era stato strumentalmente evocato. Sotto
la spinta della pressione di stampa e tv sono stati anzi
assunti il punto di vista  e le pratiche dell’avversario che
si voleva stuzzicare, fatto che ha determinato un ripiegamento ed una
limatura proprio dell’aspetto che era più provocatoriamente
graffiante. Emblematico in questo senso un messaggio lasciato da un
utente sulla bacheca delle discussioni: il nome di questo gruppo va a singhiozzo berlusconiano… prima afferma una cosa e poi la ritira.

Se
come territorio intendiamo l’insieme di soggetti ricettivi,
interessati, coinvolti dall’azione di date strutture ed entità
politiche allora a tratti ci è sembrato di assistere ad un esperimento in vitro
di presa di possesso di un territorio (Internet)  condotto tramite la
spettacolare medialità delle menzogne
del governo. Un azione portata avanti attraverso l’unico attuale
strumento utile per spostare l’ordine del discorso e mantenerne i
parametri, il tenore ed il target della discussione all’interno di
limiti sottrattivi, incapaci di esercitare mordente (anche se questo è
senz’altro imputabile alla natura caotica di un agorà cui partecipano
migliaia di persone simultaneamente).

Un ultima indicazione che emerge da questa vicenda è l’ostilità sottesa nell’atteggiamento del governo verso la vita in rete.
Un atteggiamento che tende a dirottare il dibattito pubblico – quando sarebbe sempre più urgente affrontare nodi realmente
strutturali come la Net Neutrality, la regolamentazione dei dati personali o il sempre crescente potere delle telcom – su un terreno puramente emozionale, all’interno del quale legittimare
provvedimenti (l’ultimo in ordine di tempo il ddl Pecorella) atti a sancire politicamente e culturalmente un taglio netto con gli
attuali assetti di rete.
Compito
reso più semplice dalla totale complementarità del discorso della
compagine governativa a quello del PD, che anche in questo caso si è
mostrato accomodante verso le posizioni e la linea politica espresse
dall’esecutivo, invocando di fronte all’eventualità della repressione
altra repressione («Esistono 180 gruppi contro Franceschini, chiudiamo anche quelli»).
A
questo progetto fa gioco inoltre l’ignoranza e l’incapacità di fondo
che accomunano buona parte della classe politica
italiana quando si accosta alle dinamiche personalizzanti della rete:
oggetto misterioso tutt’oggi per i Bersani ed i Quagliarella, concepita
al più come una semplice cassa di risonanza al pari di qualsiasi altro
medium broadcast old-style essa viene rifiutata se amplificatore di
umori e tensioni effettivamente presenti nel tessuto sociale. Ma come
spesso accade quando si indica la luna molti guardano il dito.

Non
ci stupirebbe allora se tra qualche mese, sulle note di sottofondo di
un setar iraniano, vedessimo mettere in piedi il teatrino della
“sicurezza” in Internet  con l’ayatollah leghista Maroni ed i cinesi
del PD stretti in un appassionato ballo.

  1. #1 di minimal il Ottobre 29, 2009 - 12:48 am

    Ueh ciao.
    Grazie per il commento che condividiamo in pieno proprio a partire dalla premessa che fai riferendoti al panorama mediatico nostrano dove ancora l’influenza televisiva ed i suoi linguaggi rimangono predominanti e grazie ai quali vengono veicolati codici ed immaginario nella cultura generalista italiana. Una riprova che tale frame si senta messo sotto attacco e provi a difendersi mi pare sia visibile giorno per giorno sfogliando le pagine dei quotidiani.
    Ecco il richiamo odierno all’ordine:
    http://www.corriere.it/…-a7c3-00144f02aabc.shtml

  2. #2 di zz il Ottobre 28, 2009 - 1:13 pm

    Uno spunto di riflessione:
    Il panorama mediatico italiano, a differenza di altri panorami internazionali, è ancora dominato dall’ordine di discorso televisivo. La situazione, naturalmente, è in evoluzione e la politica, benchè ignorante, si accorge di questa evoluzione. La sparata di maroni allora assume i caratteri del richiamo all’ordine televisivo di una realtà che inizia a sfuggirgli. Ecco che una situazione di rete, che possiede sue dinamiche e suoi linguaggi, viene riportata nell’ordine di dibattito pubblico televisivo e su questo viene analizzato e scomposto in maniera familiare e rassicurante per l’orecchio del grande pubblico. La circoscrizione della rete in un ambito di ambiguità e l’emergere del media classico (di cui B. è il padrone) come spazio di affidabilità e rassicurazione diviene alora un obiettivo raggiunto per la massa digitalmente analfabetica italiana.
    La partita è persa in partenza, sicuro. Ma al momento Maroni può gridare vittoria in questo richiamo all’ordine mediatico tradizionale e nella convergenza di tutti i media in questo richiamo.

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