Info Enclosure 2.0 – di Dmytri Kleiner e Brian Wyrick


Storicamente, il fenomeno delle enclosures ha rappresentato un momento chiave della transizione dall’economia agraria a quella industriale:nell’Inghilterra di fine ‘700, recintare privatizzandole le terre comuni (i commons per antonomasia) non significava solo imporre un sistema di diritti di proprietà, ma anche creare un esercito di disoccupati – i contadini la cui sussistenza dipendeva dal libero accesso a quelle terre – pronto a riversarsi nelle città e ad accettare condizioni di vita e lavoro degradanti, oltre a qualsiasi miseria graziosamente concessa dai nuovi padroni dell’industria, pur di sfuggire allo spettro della fame. 

Contrariamente alla retorica neoliberista, questa ci appare come la vera "Tragedy of Commons", che duecento anni dopo puntualmente si ripresenta come farsa, o amara ironia della sorte, se consideriamo il carattere apparentemente speculare e gli obiettivi delle nuove enclosures del cyberspazio, e della nuova manodopera che le subisce.

Infatti, con un altro parallelo, se fino allo scoppio rovinoso della bolla della New Economy delocalizzazione voleva dire riposizionamento del capitale fisso, chiudendo impianti produttivi nei paesi a capitalismo avanzato – ad alto tasso di conflittualità in fabbrica e a compiuta formalizzazione dei diritti dei lavoratori – e spostandoli in altri dove il lavoro veniva (e viene) disciplinato dallo schiavismo e dalla coercizione, nella terra promessa (per gli imprenditori) del Web 2.0, delocalizzazione vuol dire riposizionamento del capitale umano sfruttabile, da una fascia ristretta di professionisti istruiti e remunerati – che avevano modellato in relativa autonomia la prima internet sui propri bisogni e desideri – ad una massa di prosumer-dilettanti, inconsapevoli della messa a valore,della inforecinzione del proprio tempo libero e delle proprie passioni operata dei nuovi infolatifondisti. Con la differenza, rispetto a fine ‘700, che non è il tozzo di pane per sopravvivere la miseria da questi ultimi elargita ma la sensazione, sempre inesausta e bisognosa di riscontri, data agli internauti di essere riusciti a gratificare sé stessi.

Ovviamente ciò non può avvenire senza ingenti investimenti in infrastrutture, sia di comunicazione che di storaggio, che catturino nelle loro maglie la mole più ampia possibile di dati e creazioni personali, da cui ricavare trend per proporre adeguati servizi a pagamento. Un numero sempre crescente di esse viene progettato al fine di privilegiare la circolazione di beni digitali e servizi in rete consumati in conformità con le regole del capitale rispetto agli altri. E la più generale prospettiva di una internet asincrona – che già vediamo nella banda di telecom elargita a due velocità, nei blocchi contro il P2P di Comcast, e nelle campagne in favore di corsie preferenziali per la distribuzione di contenuti in rete – è solo l’ultimo tassello, la pietra tombale, l’istituzionalizzazione definitiva di questo disegno di controllo del cyberspazio.

Il contributo di Dmytri Kleiner e Brian Wyrick che segue completa Copyfarleft, Copyjustright e la Legge Ferrea degli Introiti da Copyright, da noi recentemente tradotto in italiano.

Ricostruisce i passaggi di aggregazione attorno al Web 2.0 di un immaginario capitalista; di come questo abbia vampirizzato, distrutto, e riassemblato attorno alle proprie esigenze l’economia delle dot com, e disperso la classe dei lavoratori della conoscenza che le alimentava; di come il processo di creazione di valore sotteso al Web 2.0 si basi su media effimeri come sensazionalismo, tormentoni e marketing emozionale; di come parallelamente rappresenti una chive di volta nel contrattacco e nella normalizzazione dall’alto sia verso il fenomeno P2P sia verso quella neutralità che ha sempre caratterizzato la rete fin dalle sue origini, riproponendo infrastrutture e modelli di distribuzione di beni e servizi digitali centralizzati ( e per questo facilmente controllabili e censurabili ); evidenziando in sintesi come di fatto il modello comunicativo del tanto decantato secondo web, rappresenti a tutti gli effetti uno strumento paradigmatico di controllo biopolitico volto all’esproprio ed all’imbrigliamento dell’intelligenza collettiva grazie a meccanismi e dispositivi di sfruttamento estensivo e di perenne messa al lavoro di un’intera società, calata in modo brutale nel ciclo vertiginoso di crisi e ristrutturazione del Capitale.

Buona lettura e buon 2009 da parte di tutto il collettivo di IFF!

InfoEnclosure 2.0
di Dmytri Kleiner e Brian Wyrick

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Wikipedia dice che il "Web 2.0, una frase coniata da O’Reilly Media nel 2004, si riferisce ad una presunta seconda generazione di servizi internet " come siti di social networking, wiki, strumenti di comunicazione, e ‘folksonomies’ " che enfatizzano la collaborazione online e lo sharing tra gli utenti."

E’ da notare l’utilizzo della parola "presunta". Come probabilmente Wikipedia, la più grande opera collaborativa della storia ed uno degli attuali beniamini della comunità di internet, dovrebbe sapere. A differenza di molti dei membri della generazione del Web 2.0, Wikipedia è controllata da una fondazione no-profit, percepisce reddito solo tramite donazioni e rilascia i suoi contenuti sotto la GNU Free Documentation License, in copyleft. E’ significativo che Wikipedia continui a dire: "il Web 2.0 è divenuto un popolare tormentone ( sebbene maldefinito e spesso soggetto a critica) in determinate comunità tecniche e di marketing."

La comunità del free software è stata incline al sospetto, se non apertamente sprezzante, nei confronti del nomignolo Web 2.0. Tim Berners-Lee liquidò l’espressione affermando: "Il Web 2.0 è certamente un’espressione gergale, nessuno nemmeno sa cosa significhi." E continua, notando che: "significa utilizzare gli standard che sono stati prodotti da tutta la gente al lavoro sul Web 1.0."

In realtà non c’è né un Web 1.0 né un Web 2.0, c’è uno sviluppo costante di applicazioni online che non può essere chiaramente delimitato.

Nel tentativo di definire cosa sia il Web 2.0, è pacifico dire che molti degli sviluppi importanti sono stati mirati a permettere alla comunità di creare, modificare, e condividere contenuti in modalità precedentemente disponibili solamente ad organizzazioni centralizzate che disponevano di costosi pacchetti software, dipendenti pagati per gestire gli aspetti tecnici del sito e dipendenti pagati per creare contenuti solitamente pubblicati esclusivamente sul sito dell’organizzazione stessa.

Un’azienda Web 2.0 cambia fondamentalmente il modo di produzione dei contenuti internet. Web application e servizi sono divenuti più economici e facili da implementare e, permettendo l’accesso a queste applicazioni da parte degli utenti finali, un’azienda può efficacemente esternalizzare la creazione e l’organizzazione dei propri contenuti agli utenti finali stessi. Contrariamente al modello tradizionale del provider di contenuti che provvede a pubblicare gli stessi, con l’utente finale ad usufruirne, il nuovo modello permette al sito dell’azienda di fungere da portale centralizzato tra gli utenti, che sono sia creatori che consumatori.

Per l’utente, l’accesso a queste applicazioni aumenta la propria capacità di creare e pubblicare contenuti che in precedenza gli avrebbero richiesto l’acquisto di software per il desktop ed il possesso di un bagaglio di conoscenze tecnologiche maggiore. Ad esempio, due dei principali mezzi di produzione testuale nel Web 2.0 sono i blog ed i wiki che permettono all’utente di creare e pubblicare contenuti direttamente dal loro browser senza alcun bisogno reale di conoscere i linguaggi di markup ed i protocolli di file transfer o syndication,tutto ciò senza la necessità di acquistare alcun software.

L’utilizzo delle web application per sostituire il software su desktop è ancora più significativa per l’utente quando si tratta di contenuto che non sia meramente testuale. Non solo si possono creare e modificare pagine web nel browser senza acquistare software di editing html, ma le fotografie possono essere uploadate e manipolate online attraverso il browser stesso, senza la necessità di costose applicazioni desktop di manipolazione delle immagini. Una ripresa video su videocamera domestica può essere inviata ad un sito di video hosting, caricata, codificata, implementata in una pagina HTML, pubblicata, taggata, e ridiffusa per il web, tutto tramite il browser dell’utente.

Nell’articolo di Paul Graham sul Web 2.0, l’autore scompone i differenti ruoli della comunità/utente in ruoli più specifici, vale a dire il Professionista, il Dilettante, e l’Utente (più nello specifico, l’utente finale). I ruoli del Professionista e dell’Utente erano, secondo Graham, ben compresi nel Web 1.0, ma il Dilettante non aveva una posizione molto ben definita. Come Graham lo descrive in "What Business Can Learn From Open Source", il Dilettante ama semplicemente lavorare, senza alcuna preoccupazione per il compenso o la proprietà di quell’opera; in fase di sviluppo, il Dilettante contribuisce al software open source, laddove il Professionista viene pagato per il proprio lavoro proprietario.

La caratterizzazione del "Dilettante" da parte di Graham ne ricorda una di If I Ran The Circus, del Dr. Seuss, in cui il giovane Morris McGurk parla dello staff del suo immaginario Circo McGurkus:

    *
      I miei lavoratori amano lavorare. Dicono, "Mettici al lavoro! Per favore, mettici al lavoro! Lavoreremo ed escogiteremo così tante sorprese da non vederne nemmeno la metà anche con quaranta occhi!?

E, mentre il "Web 2.0" potrebbe non significare niente per Tim Berners-Lee, che vede le innovazioni recenti come niente più che sviluppo progressivo del web, per i venture capitalists, che come Morris McGurk fantasticano di lavoratori instancabili che producono contenuti inesauribili senza richiedere per ciò una paga, suona stupendo. E senza dubbio, da YouTube a Flickr fino a Wikipedia, davvero non se ne vedrebbe la metà nemmeno con quaranta occhi.

Tim Berners-Lee ha ragione. Non c’è nulla dal punto di vista del tecnico o dell’utente nel Web 2.0 che non abbia le proprie radici nel Web 1.0 e non ne sia un’evoluzione naturale. La tecnologia associata all’icona del Web 2.0 era possible ed in alcuni casi già disponibile anzitempo, ma l’hype che ne circonda quest’utilizzo è stato di certo influenzato dalla crescita dei siti internet di Web 2.0.

Internet (che, in realtà, rappresenta più che il web) ha sempre implicato la condivisione tra utenti. Di fatto, Usenet, un sistema di messaging distribuito, è funzionante dal 1979! Da molto prima persino del Web 1.0, Usenet ha ospitato discussioni, giornalismo "dilettantistico", e permesso la condivisione di foto e file. Come internet, è un sistema distribuito non posseduto o controllato da nessuno. E’ questa qualità, una mancanza di proprietà e di controllo centrale, che differenzia servizi come Usenet dal Web 2.0.

Se Web 2.0 deve proprio significare qualcosa, il suo significato ricade nella logica del venture capital. Il Web 2.0 rappresenta il ritorno degli investimenti nelle start-up di internet. Dopo lo scoppio delle dotcom (la vera fine del Web 1.0) quegli ammiccanti dollari-investimento avevano bisogno di una nuova ragione per scommettere sulle imprese online. "Costruitele ed arriveranno", l’atteggiamento dominante del boom delle dotcom anni ’90, assieme all’effimera "new economy", non era più attraente dopo il fallimento di tante imprese. Costruire infrastruttura e finanziare capitalizzazione reale non era più quello che cercavano gli investitori. Catturare valore creato da altri, tuttavia, si dimostrò rappresentare una proposizione più attraente.

Web 2.0 è il Boom degli Investimenti Internet 2.0. Web 2.0 è un modello di business, vuol dire cattura privata di valore creato della comunità. Nessuno nega che la tecnologia di siti come YouTube, ad esempio, sia banale. Questo è più che evidenziato dall’ampio numero di servizi identici come DailyMotion. Il valore reale di YouTube non è creato dagli sviluppatori del sito, ma piuttosto viene creato dalle persone che caricano i video sul sito. Eppure, quando YouTube è stato comprato per oltre un miliardo dello stock di azioni di Google, quanto di questo stock è stato acquisito da quelli che avevano creato tutti questi video?
Zero. Zilch. Nada. Ottimo, se sei il gestore di un’azienda Web 2.0.

    *
      Il valore prodotto dagli utenti di servizi Web 2.0 come YouTube viene catturato dagli investitori capitalisti. In alcuni casi, l’effettivo contenuto che apportano alimenta la proprietà dei detentori del sito. L’appropriazione privata del valore creato da una comunità è un tradimento delle promesse della tecnologia di condivisione e della libera cooperazione.

A differenza del Web 1.0, in cui gli investitori spesso finanziavano costose acquisizioni di capitale, sviluppo software e creazione di contenuti, un investitore del Web 2.0 ha bisogno principalmente di finanziare la generazione di hype, marketing e chiacchiericcio. L’infrastruttura è largamente disponibile a buon mercato, il contenuto è gratuito ed il costo del software, almeno di quanto di esso non sia anche gratuito, è trascurabile. Di base, fornendo banda e spazio su disco potete diventare un sito internet di successo, se siete in grado di vendervi efficacemente.

Il successo principale di un’azienda Web 2.0 arriva dal suo relazionarsi alla comunità e, più nello specifico, dall’abilità dell’azienda di "imbrigliare l’intelligenza collettiva", per come la mette O’Reilly. Le aziende del Web 1.0 erano troppo monolitiche ed unilaterali nel proprio approccio al contenuto. "Success stories" nella transizione dal Web 1.0 al Web 2.0 si sono basate sulla capacità di un’azienda di rimanere monolitica nel suo brand contenutistico o, ancora meglio, nella sua aperta proprietà di quel contenuto, dischiudendo allo stesso tempo il metodo di creazione di quel contenuto alla comunità. Yahoo! creò un portale verso il contenuto della comunità, mentre il rinvenimento di quel contenuto restava compito del motore centralizzato. EBay permette alla comunità di vendere le sue merci, mentre essa possiede il mercato di quelle merci. Amazon, vendendo gli stessi prodotti di molti altri siti, ha ottenuto successo permettendo alla comunità di partecipare al "flusso" attorno ai propri prodotti.

Dato che i capitalisti che investono nelle start-up del Web 2.0 spesso non ne finanziano la prima capitalizzazione, il loro comportamento diventa peraltro marcatamente parassitario. Arrivano spesso in ritardo nel processo, quando la creazione di valore ha una buona spinta, e vi si inseriscono per assumerne la proprietà ed utilizzare il proprio potere finanziario per promuovere il servizio, spesso entro il contesto di una rete egemonica di importanti e ben finanziati partner. Ciò significa che le aziende che non siano acquisite da capitale di ventura finiscono a corto di liquidità e vengono estromesse dal club.

In tutti questi casi, il valore del sito internet non è creato dai dipendenti pagati dell’azienda che lo gestisce, ma dagli utenti che ne usufruiscono. Con tutta l’enfasi sul contenuto creato dalla comunità e dalla condivisione, è facile lasciarsi sfuggire l’altro lato dell’esperienza del Web 2.0: proprietà di tutto questo contenuto e capacità di monetizzarne il valore. Per l’utente ciò non si mostra tanto spesso, fa solo parte dei bei caratteri nei loro MySpace Terms of Service agreement, oppure è il Flickr.com nell’indirizzo url delle loro foto. Di solito, non appare come un problema per la comunità, è un piccolo prezzo da pagare per l’utilizzo di queste meravigliose applicazioni e per il notevole effetto sui risultati dei motori di ricerca quando si ricerca il proprio nome. Dato che la maggior parte degli utenti non ha accesso a mezzi alternativi di produrre e pubblicare i loro stessi contenuti, sono attratti da siti come MySpace e Flickr.

Nel frattempo, il mondo aziendale stava spingendo un’idea completamente diversa della Superstrada dell’Informazione, producendo ‘servizi online’ monolitici e centralizzati come CompuServe, Prodigy ed AOL. Ciò che divideva questi da internet è che questi erano sistemi centralizzati a cui tutti gli utenti si connettevano direttamente – mentre internet è una rete peer-to-peer in cui ogni dispositivo con un indirizzo internet pubblico può comunicare in modo diretto con ogni altro dispositivo. Questo è ciò che rende possibile la tecnologia peer-to-peer, ma anche ciò che rende possibili gli internet service provider.

Si dovrebbe aggiungere che molti progetti open source possono essere citati come le innovazioni chiave nello sviluppo del Web 2.0: software liberi come Linux, Apache, PHP, MySQL, Python, etc. sono la spina dorsale del Web 2.0, e del web stesso. Ma c’è un difetto fondamentale in tutti questi progetti, nei termini di ciò a cui O’Reilly si riferisce come le Core Competencies delle Aziende Web 2.0, cioé il controllo su di fonti di dati uniche e difficili da ricreare, che si arricchiscono man mano che più persone le utilizzano  "imbrigliando l’intelligenza collettiva" che attirano. Permettere alla comunità di contribuire apertamente e di utilizzare quel contributo, entro il contesto di un sistema proprietario in cui il possidente controlli il contenuto, è una caratteristica di un’azienda Web 2.0 di successo. Tuttavia, permettere alla comunità di possedere quello che crea, non lo è. Quindi, per avere successo e creare profitti per gli investitori, un’azienda Web 2.0 ha bisogno di creare meccanismi di condivisione e collaborazione che siano controllati centralmente. La mancanza di controllo centrale esperita da Usenet ed altre tecnologie controllate da pari è il difetto fondamentale. Beneficiano di esse solo i loro utenti, non gli investitori assenti, dato che non sono "possedute".

Quindi, dato che il Web 2.0 è finanziato dal Capitalismo versione 2006, Usenet viene per lo più dimenticata. Mentre tutti utilizzano Digg e Flickr, e YouTube vale un miliardo di dollari, PeerCast, un network innovativo di video streaming peer-to-peer in tempo reale, in attività da diversi anni in più rispetto a YouTube, è virtualmente sconosciuto.

Da un punto di vista tecnico, le tecnologie distribuite e peer-to-peer(P2P) sono molto più efficienti dei sistemi del Web 2.0. Facendo miglior utilizzo delle risorse di rete con l’impiego di computer connessioni di rete degli utenti, il P2P evita la formazione di colli di bottiglia creati da sistemi centralizzati e permette che il contenuto venga pubblicato con infrastrutture minori – spesso con nient’altro che un computer e la connessione internet domestica. I sistemi P2P non richiedono i colossali centri dati di siti come YouTube. La mancanza di infrastruttura centrale si manifesta anche con una mancanza di controllo centrale – vale a dire censura, spesso un problema di ‘comunità’ di proprietà privata che spesso si piegano a gruppi di pressione pubblici e privati ed impongono limitazioni sui tipi di contenuti permessi.
Inoltre, la mancanza di grandi database centralizzati per l’incrocio di informazioni degli utenti racchiude un forte vantaggio in termini di privacy.

Da questa prospettiva, si può dire che il Web 2.0 sia l’attacco preventivo del capitalismo contro i sistemi P2P. Nonostante i suoi molti svantaggi rispetto a questi, il Web 2.0 è maggiormente attraente per gli investitori, e quindi ha più capitali per finanziare e promuovere soluzioni centralizzate. Il risultato finale di tutto ciò è che l’investimento capitalista è fluito nelle soluzioni centralizzate rendendole di semplice ed economica o gratuita adozione per produttori di informazione privi di competenze tecniche. In tal modo questa facilità di accesso, paragonata all’intraprendere l’impresa maggiormente stimolante e costosa di possedere i propri mezzi di produzione di informazione, ha creato un proletariato informazionale "senza terra", pronto a fornire manodopera alienata ai fini di creazione di contenuti per i nuovi info-latifondisti del Web 2.0.

Viene spesso detto che internet ha colto di sorpresa il mondo aziendale, sbucando come fece da università finanziate con soldi pubblici e dalla ricerca militare. Fu promossa per mezzo di un’industria a domicilio di piccoli internet service provider indipendenti in grado di spremere soldi dalla fornitura di accesso alla rete costruita e finanziata dallo stato.

Internet sembrava un anatema per l’immaginario capitalista. Il Web 1.0, il boom originario delle dotcom, fu caratterizzato da una corsa al controllo dell’infrastruttura, per consolidare gli internet service provider indipendenti. Mentre il denaro veniva sperperato abbastanza a caso, laddove gli investitori si scervellavano per capire per cosa questo media potesse effettivamente essere utilizzato, la missione complessiva ottenne un ampio successo. Nel 1996, un account internet vi era molto probabilmente fornito da alcune piccole aziende locali. Dieci anni dopo, mentre alcune delle aziende più piccole erano sopravvissute, la maggioranza della gente otteneva i propri accessi internet da
colossali aziende di telecomunicazioni. La missione del Boom degli Investimenti Internet 1.0 era di distruggere i service provider indipendenti, e di reinstallare al comando grandi e ben finanziate aziende.

La missione del Web 2.0 è di distruggere l’aspetto P2P di internet. Di rendere voi, il vostro computer, e la vostra connessione internet dipendenti dall’allacciamento ad un servizio centralizzato che controlli la vostra capacità di comunicare. Il Web 2.0 è la rovina dei sistemi liberi e peer-to-peer ed il ritorno dei monolitici "servizi online".
Qui, un dettaglio rivelatore è che la maggior parte delle connessioni internet domestiche o lavorative negli anni ’90 – connessioni modem ed ISDN – fossero sincrone, uguali nella loro capacità di inviare e ricevere dati. Per design, la vostra connessione vi permetteva di essere egualmente un produttore ed un consumatore di informazione. D’altro canto, le moderne connessioni DSL e via cavo sono asincrone, permettendovi di scaricare informazione velocemente, ma caricarne lentamente. Senza menzionare il fatto che molti contratti di servizi internet vi proibiscono di gestire server sul vostro circuito di consumatore, arrivando a staccarvi il servizio qualora facciate altrimenti.

Il capitalismo, radicato nell’idea di ricavare profitto per mezzo di una fetta di proprietà inattiva, richiede controllo centralizzato, senza il quale i produttori non avrebbero motivo di dividere il proprio reddito con azionisti esterni. Perciò, il capitalismo è incompatibile con le reti P2P libere, e quindi, fino a quando il finanziamento dello sviluppo di internet proverrà da azionisti privati alla ricerca di cattura di valore tramite il possesso di risorse su internet, la rete diverrà solamente più limitata e centralizzata.

Si dovrebbe notare che, persino nel caso della produzione tra pari basata sui common, fino a quando i common e l’appartenenza al gruppo di pari sono limitati e gli input (come il cibo per i produttori ed i computer che utilizzano) sono acquisiti dall’esterno del gruppo di pari basato sui common, allora gli stessi produttori potrebbero essere complici nella cattura sfruttatrice di questo valore di manodopera.
Quindi, al fine di affrontare realmente l’ineguale cattura di valore di lavoro alienato, l’accesso ai common e l’appartenenza al gruppo di pari devono essere estese quanto più possibile, verso l’inclusione in un sistema completo di beni e servizi. Solo quando tutti i beni produttivi saranno disponibili dai produttori basati sui common, tutti i produttori potranno trattenere il valore del prodotto del loro lavoro.

E mentre i common informazionali possono avere la possibilità di giocare un ruolo nello spostare la società verso modalità di produzione più inclusive, una qualunque speranza reale di una nuova generazione di servizi internet genuini e in grado di arricchire le comunità non è radicata nella creazione di risorse centralizzate e detenute privatamente, ma piuttosto nella creazione di sistemi cooperativi, P2P e basati sui common, posseduti da tutti e da nessuno. Sebbene piccola ed oscura per gli standard odierni, con il suo focus su applicazioni peer-to-peer come Usenet ed email, la prima internet era una risorsa assai comune e condivisa. Assieme alla commercializzazione di internet ed all’emergenza del finanziamento capitalista arriva la recinzione dei common dell’informazione, traducendo ricchezze pubbliche in profitti privati. Quindi il Web 2.0. non deve essere pensato come una seconda generazione sia dello sviluppo tecnico che di quello sociale di internet, ma piuttosto come alla seconda onda della recinzione capitalista dei Common dell’Informazione.

Virtualmente tutte le risorse internet più utilizzate possono essere sostituite da alternative P2P. Google potrebbe venire rimpiazzato da un sistema di ricerca P2P, in cui ogni browser ed ogni webserver sarebbero nodi attivi nel processo di ricerca; anche Flickr e YouTube potrebbero venire rimpiazzati da applicazioni del tipo di PeerCast ed eDonkey, che permettano agli utenti di utilizzare i propri computer e connessioni internet per condividere in modo collaborativo le proprie immagini e video. Tuttavia, sviluppare risorse internet richiede l’applicazione di ricchezza, e finché la fonte di questa ricchezza consisterà nel capitale finanziario, il grande potenziale peer-to-peer di internet rimarrà irrealizzato.

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