Fin dalla prima Info Free Flow, il dibattito sul copyleft ci ha sempre accompagnato nella nostra ricerca come naturale complemento della nostra critica al software proprietario: come strategia per costruire vie di fuga ed immaginari di conflitto rispetto all’insostenibile condizione di ingessamento di arti e saperi nelle spire di un sistema di proprietà intellettuale escludente, eterodiretto e parassitario.
Al riproporsi sfinente di sempre nuove estensioni dei diritti di proprietà su opere di autori scomparsi da anni (quando non decenni) e delle continue crociate contro la "pirateria multimediale" abbiamo opposto la libertà di circolazione e riproduzione delle opere insita nelle licenze creative commons come, da una prospettiva più informatica, ci siamo opposti alle chiusure del codice e alle implementazioni di una volontà di controllo spaziale e temporale delle modalità di fruizione di beni informazionali come il DRM; oggi, tuttavia, proseguiamo il nostro percorso in un panorama profondamente mutato.
Allo stesso modo in cui le grandi software companies hanno sussunto pratiche ed orientamenti della cultura open – come Ippolita ha mirabilmente mostrato nel suo Open non è Free – con l’ingresso trionfale delle licenze creative commons nei circuiti della grande distribuzione e l’esplosione dei social network si profilano all’orizzonte prospettive analoghe per il copyleft: un mondo in cui alla rendita come diritto di sfruttamento dell’opera dell’ingegno da parte dei colossi della grande distribuzione subentri la rendita intesa come diritto di esproprio dell’intelligenza e della produzione informazionale collettiva da parte dei nuovi intermediari e monopolisti dei portali attraverso cui queste si esprimono e si ricombinano.
Come giustamente invita Geert Lovink nel suo ultimo saggio, è giunta l’ora di dotarsi di strumenti concettuali in grado di superare l’ideologia del free nel momento in cui esso, paradossalmente e senza soluzione di continuità, si trasforma in uno strumento di rinnovato controllo del flusso informazionale e di perpetuazione di clamorose diseguaglianze economiche. Di elaborare commons i cui produttori possano trattenere e condivere in autonomia la ricchezza creata.
In tal senso, vogliamo aprire il dibattito con la traduzione italiana di questa proposta di Dmytri Kleiner, anarchico tedesco, animatore della mailing list Nettime e fondatore di Telekommunisten, una cooperativa/mutua di telefonia modellata sui principi di una determinata accezione del copyleft: il Copyfarleft.
Buona lettura!
Copyfarleft, Copyjustright e la Legge Ferrea degli Introiti da Copyright
di Dmytri Kleiner
Nel campo dello sviluppo software il copyleft si è dimostrato essere un mezzo enormemente efficace di creare un common di informazione, di cui beneficino largamente tutti coloro la cui produzione dipenda da esso. Tuttavia, molti artisti, musicisti, scrittori, cineasti ed altri produttori di informazione restano scettici del fatto che un sistema basato sul copyleft, in cui ognuno sia libero di riprodurre il loro lavoro, possa garantire loro di che vivere.
Le licenze copyleft garantiscono la libertà della proprietà intellettuale richiedendo che il riutilizzo e la redistribuzione dell’informazione sia governata dalle "quattro libertà": le libertà di utilizzo, studio, modifica e redistribuzione.
Tuttavia, la proprietà è nemica della libertà. E’ la proprietà, la capacità di controllare asset produttivi a distanza, la capacità di "possedere" qualcosa adibito ad uso produttivo da un’altra persona, che rende possibile il soggiogamento degli individui e delle comunità. Laddove la proprietà è sovrana, i detentori di proprietà scarsa possono negare la vita negando l’accesso alla proprietà oppure, se non negando del tutto la vita, obbligando i viventi a lavorare come schiavi, senza alcun compenso al di fuori dei propri costi di riproduzione.
David Ricardo descrisse per primo la Rendita Economica. Semplicemente, la Rendita Economica è il reddito che il proprietario di un asset produttivo può guadagnare solamente possedendolo, non adoperandolo per qualcosa, ma semplicemente tramite la proprietà di esso. Perciò, la Rendita è il ritorno economico per permettere agli altri l’utilizzo della proprietà. Cosa pagherebbe una persona per il diritto all’esistenza? Bene, pagherebbe tutto ciò che produce, meno il proprio costo di sussistenza. Questa è la posizione basilare di trattativa esperita da tutti noi, nati in un mondo posseduto interamente da altri.
LA LEGGE FERREA DEI SALARI
La rendita permette ai detentori di proprietà scarsa di ridurre i lavoratori senza proprietà alla sussistenza, come David Ricardo spiega nella sua "Legge Ferrea dei Salari" nel suo saggio Sui Salari: ‘ Il prezzo naturale del lavoro è quel prezzo che è necessario per rendere in grado i lavoratori, l’uno con l’altro, di sussistere e perpetuare la propria razza’. [1]
Il significato della sussistenza non dovrebbe essere ridotto al mero minimo richiesto per sopravvivere e riprodursi effettivamente. Persino ai tempi di Ricardo, molti lavoratori non erano generalmente nella posizione in cui il mancato guadagno di un penny li facesse accasciare e morire. Piuttosto, i lavoratori, per loro stessa definizione, sono incapaci di guadagnare abbastanza per fare qualcosa oltre al procurarsi da vivere.
Si sostiene spesso che la legge ferrea dei salari non si applichi a causa della differenza tra il prezzo ‘naturale’ teorico ed il prezzo di mercato effettivo del lavoro, ma ciò non rappresenta un’argomentazione contro la Legge Ferrea. Finché i lavoratori non possiedono la proprietà, qualunque aumento dei salari ottengano verrà spazzato via dall’inflazione, molto spesso come risultato dell’accresciuta competizione monetaria per gli spazi e dell’innalzamento delle rendite terriere. Ridurre i salari reali tramite l’inflazione in alternativa a ridurre i salari monetari funziona a causa dell’ ‘illusione della moneta’.
Come scrive John Maynard Keynes nella sua Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta: ‘Viene detto, a volte, che sarebbe illogico per la forza lavoro resistere ad una riduzione dei salari monetari ma non resistere ad una riduzione dei salari reali […] l’esperienza indica che la forza lavoro si comporta effettivamente in questo modo.'[2]
L’inflazione, per lo più nella forma della rendita economica, impedisce ai lavoratori di guadagnare abbastanza per accumulare essi stessi proprietà di asset produttivi, e li mantiene dipendenti dai detentori della proprietà.
Ciò che la legge ferrea dei salari realmente significa è che i lavoratori, come classe, non possono divenire detentori della proprietà e quindi non possono sottrarsi dal fatto che i detentori della proprietà si approprino del prodotto del loro lavoro. Questo crea interessi differenti tra i ‘proprietari’ di asset produttivi scarsi ed il resto della società.
Nell’accezione moderna, si assume che la rendita economica si applichi ad ogni asset produttivo scarso. Al tempo di Ricardo questo era in primo luogo la terra. Nel suo Saggio sui Profitti, David Ricardo argomenta: ‘l’interesse del proprietario terriero è sempre opposto all’interesse di ogni altra classe nella comunità.’[3]
Questa opposizione viene chiamata lotta di classe – la lotta di quelli che producono contro quelli che possiedono. Il socialismo e tutti gli altri movimenti della ‘sinistra’ iniziano da questa lotta di classe come proprio punto di partenza.
Il Socialismo è la convinzione che i produttori stessi debbano possedere i mezzi di produzione e che la rendita non è nient’altro che il furto dei proprietari nei confronti dei produttori. Come famosamente argomentò Pierre-Joseph Proudhon nel suo miliare ‘Cos’è la Proprietà?’ pubblicato nel 1840: ‘La proprietà è un furto’.[4]
La proprietà non è un fenomeno naturale, ma piuttosto qualcosa che viene creato dalla legge. La capacità di estrarre rendita dipende dalla capacità individuale di controllare una risorsa scarsa, anche nel momento in cui questa sta venendo utilizzata da qualcun’altro. In altre parole, la capacità di costringere l’altra persona a pagare per essa. Oppure, in termini di produzione, di costringerla a dividere il prodotto del proprio lavoro con il detentore della proprietà. Controllo a distanza.
In questo modo, la rendita è possibile solo fino a quando è supportata dalla forza, che viene di buon grado fornita da parte dello stato ai detentori della proprietà. Senza i mezzi per costringere chi metta la proprietà ad utilizzo produttivo a dividere il prodotto del proprio lavoro con l’assente e ozioso detentore della proprietà, quest’ultimo non potrebbe guadagnarsi da vivere, né tantomeno accumulare altra proprietà. Come sostiene Ernest Mandel ne Il Materialismo Storico e lo Stato Capitalista (1980): ‘senza la violenza di stato capitalista, non esiste capitalismo sicuro.’
Lo scopo della proprietà è di assicurare che una classe non proprietaria esista per produrre la ricchezza goduta da una classe possidente. La proprietà non è amica del lavoro. Questo non per dire che i lavoratori individuali non possano divenire detentori della proprietà, ma piuttosto che fare così significa sfuggire alla loro classe. ‘Success stories’ individuali non cambiano il dato generale. Come scherzava Gerald Cohen, ‘Voglio innalzarmi assieme alla mia classe, non sopra alla mia classe!’
La situazione globale attuale conferma che di fatto i lavoratori, come classe, non sono in grado di accumulare proprietà. Uno studio dell’Istituto Mondiale per le Ricerche sull’Economia dello Sviluppo all’Università delle Nazioni Unite riferisce che il solo 1% più ricco degli adulti possiede il 40% degli asset globali nell’anno 2000, e che il 10% più ricco degli adulti arriva all’85% del totale mondiale. [5]
La metà inferiore della popolazione adulta mondiale possiede appena l’1% della ricchezza globale. Ampie statistiche, molte indicanti una crescente disparità mondiale, sono incluse nel rapporto.
E’ nel contesto di questa grande disparità di ricchezza e della lotta tra le classi che ogni indagine sulla proprietà intellettuale deve essere compresa.
La Proprietà Intellettuale, copyright incluso, è l’estensione della proprietà agli asset immateriali, all’informazione. Il copyright è una costruzione legale che prova a rendere funzionanti alcuni tipi di ricchezza immateriale allo stesso modo della ricchezza materiale, affinché possano essere posseduti, controllati e scambiati.
Sfortunatamente, viene spesso detto che la proprietà intellettuale è concepita per permettere ai produttori di informazione di guadagnarsi da vivere.
Di permettere ai musicisti, ad esempio, di ricavare denaro dalla musica che compongono. Tuttavia, una comprensione della lotta di classe rende chiaro che fino a quando la classe possidente desideri avere la musica, deve permettere ai musicisti di guadagnarsi da vivere. Non richiedono la proprietà intellettuale a tal fine. Piuttosto, richiedono la proprietà intellettuale affinché i detentori della proprietà, non i musicisti, possano ricavare denaro dalla musica composta dai musicisti.
In qualunque sistema di proprietà, i musicisti non possono trattenere collettivamente maggiore proprietà del prodotto del proprio lavoro di quanto non possano fare i lavoratori di una manifattura tessile. Lo scopo della proprietà intellettuale, per riprendere la mia affermazione precedente, è di assicurare che esista una classe non proprietaria per produrre l’informazione da cui una classe possidente ricava profitto. La proprietà intellettuale non è amica del lavoratore creativo, né intellettuale.
LA LEGGE FERREA DEGLI INTROITI DA COPYRIGHT
Il sistema di controllo privato dei mezzi di pubblicazione, distribuzione, promozione e della produzione dei media garantisce che gli artisti e tutti gli altri lavoratori creativi non possano guadagnare più della propria sussistenza. Che tu sia un biochimico, un musicista, un ingegnere informatico od un cineasta, hai ceduto con una firma tutti i tuoi diritti d’autore ai detentori della proprietà, prima che questi diritti abbiano qualsiasi reale valore finanziario, per nulla più che i costi di riproduzione del tuo lavoro. Questa è ciò che chiamo la Legge Ferrea degli Introiti da Copyright.
Esistono, tuttavia, importanti differenze tra la proprietà intellettuale e la proprietà fisica. La proprietà fisica è scarsa e soggetta a rivalità, mentre la proprietà intellettuale piò essere copiata, non ha quasi costi di riproduzione e può essere simultaneamente utilizzata da chiunque abbia una copia.
E’ esattamente questa caratteristica di riproducibilità illimitata che richiede al regime di copyright di trasformare l’informazione in proprietà. Nel lungo termine, il valore di scambio di ogni bene riproducibile viene spinto dalla competizione verso il suo costo di riproduzione. Dato che esistono poche barriere alla riproduzione di un asset informativo, esso può non avere valore di scambio oltre alla manodopera ed alle risorse richieste per riprodurlo. In altre parole, non possiede di per sé valore di scambio a lungo termine. Così, i detentori della proprietà (ancora una volta, da non confondere con i produttori) hanno bisogno di leggi per impedire questa riproduzione. Solo rendendo illegale per altri il copiare i detentori possono estrarre rendita dalla copia.
Mentre la proprietà stessa viene creata dalla legge, gli asset materiali sono scarsi e rivali per natura. Tuttavia, dato che l’informazione copiabile è resa scarsa solo dalla legge, può anche essere resa abbondante dalla legge, il che ci porta, finalmente, al copyleft.
COPYLEFT E COPYRIGHT
L’informazione può non avere alcun valore di scambio senza il copyright, ma certamente possiede valore d’uso senza il copyright e vi sono parecchi produttori d’informazione la cui motivazione promana dal creare questo valore d’uso, sia che possa catturare direttamente il valore di scambio, o meno. Perciò non è sorprendente che l’idea del copyleft è assurta alla prominenza nello sviluppo del software, alla nascita della comunità del free software.
Il software viene utilizzato nella produzione. Virtualmente ogni ufficio, accademia e fabbrica si affida al software nel proprio lavoro giornaliero, dato che per tutte queste organizzazioni il valore d’uso del software può essere direttamente tradotto in valore di scambio nel corso della loro normale produzione, non vendendo direttamente il software, ma effettuando qualsiasi proprio business, vendendo qualunque proprio prodotto ed utilizzando il software per incrementare la propria produttività.
Pagare per le licenze software ed accettarne i termini restrittivi non è nei loro interessi. Come David Ricardo disse riguardo ai proprietari terrieri, l’interesse di una software company come Microsoft è sempre opposto all’interesse di ogni utente del software.
Le organizzazioni che utilizzano software (scuole, fabbriche, uffici, imprese di e-commerce) impiegano collettivamente molti più sviluppatori software che le poche compagnie che vendono software proprietario, come Microsoft. Così, il free software è per loro molto attraente: permette loro di ridurre i propri costi di sviluppo individuale gestendo collettivamente uno stock comune di asset software.
Mikko Mustonen della Helsinki School of Economics, argomenta persino che a volte le compagnie che vendono licenze proprietarie hanno un forte incentivo a contribuire al free software. Nel suo paper del 2005, ‘When Does a Firm Support Substitute Open Source Programming?’ Mustonen spiega:
Un’azienda che vende un programma sotto copyright ha l’incentivo di supportare programmi sostituti in copyleft, laddove il supporto crei compatibilità tra i programmi ed i programmi dimostrino effetti di rete.[6]
Così il valore d’uso del free software è richiesto da organizzazioni che possono pagare sviluppatori di software per produrlo, anche se essi non possiedono un copyright esclusivo su di esso.
Eppure, il free software non è stato meramente concepito come un mezzo di ridurre il costo di sviluppo di software aziendale. Richard Stallman, l’inventore della General Public Licence (GPL) sotto cui viene rilasciata buona parte del free software scrive sul sito web della sua organizzazione:
Il mio lavoro sul free software è motivato da un fine idealistico: diffondere la libertà e la cooperazione. Voglio incoraggiare il free software a diffondersi, rimpiazzando il software proprietario che proibisce la cooperazione, e così rendere migliore la nostra società.[7]
Questo spirito di cooperazione non è certo un caso unico tra gli sviluppatori di software, altri produttori creativi hanno espresso il desiderio di lavorare su uno stock comune, un ‘common’ di materiale intellettuale nella loro pratica. Come risultato, il copyleft è andato oltre il mondo del software, propagandosi anche nelle arti. Musicisti, scrittori ed altri artisti hanno iniziato a rilasciare i propri lavori sotto licenze copyleft modellate sulla GPL.
Tuttavia esiste un problema: l’arte non è, nella maggior parte dei casi, un comune input per la produzione allo stesso modo del software. I detentori della proprietà supporteranno la creazione di software copyleft per le ragioni descritte, tuttavia nella maggior parte dei casi, non supporteranno la creazione di arte copyleft. Perché dovrebbero farlo? Come tutte le informazioni copiabili, non ha valore di scambio diretto e, a differenza del software, di solito non ha neppure un valore d’uso nella produzione. Il suo valore d’uso esiste solo tra i cultori di quest’arte, e se i detentori della proprietà non possono imporre ad essi un pagamento per il diritto alla copia, cosa ne viene di buono per loro? E se i detentori della proprietà non supporteranno l’arte copyleft, che viene distribuita liberamente, chi lo farà? La risposta non è chiara. In alcuni casi, lo farebbero istituzioni come fondi culturali privati e statali, ma questi possono supportare solamente un numero di artisti molto ristretto, e solo impiegando dubbi e sostanzialmente in qualche modo arbitrari criteri di selezione nel decidere chi riceva tale finanziamento e chi no.
Il copyleft, come sviluppato dalla comunità del free software, non rappresenta quindi un’opzione praticabile per la maggior parte degli artisti. Persino per gli sviluppatori di software si applica la legge ferrea dei salari: potrebbero riuscire a guadagnarsi di che vivere, ma niente di più; i detentori della proprietà cattureranno ancora il valore completo del prodotto del loro lavoro.
Il copyleft quindi non è in grado di ‘rendere migliore la società’ in nessun senso materiale, perché non solo non è praticabile per molte categorie di lavoratori, ma è la maggioranza del valore di scambio extra, creata dai produttori dell’informazione copyleft, ad essere sempre catturata dai detentori della proprietà materiale.
Dato che il copyleft non può permettere ai lavoratori di accumulare ricchezza oltre la sussistenza, da solo non può cambiare la distribuzione degli asset produttivi, il che rappresenta ciò che ogni strategia rivoluzionaria deve cercar di fare. Eppure, l’emersione del free software, del filesharing e di forme artistiche basate sul campionamento e sul riutilizzo di altri media ha creato un serio problema per il sistema tradizionale del copyright.
Le industrie musicali e cinematografiche, in particolare, si trovano in mezzo a ciò che fondamentalmente equivale a una guerra senza quartiere contro i loro stessi consumatori per impedire loro di scaricare e campionare la loro proprietà. E’ chiaro che la tecnologia digitale di rete pone un serio problema alle industrie discografiche e cinematografiche.
Negli stadi precedenti del movimento del free software la maggior parte delle aziende, e specialmente le software companies, reagì molto negativamente all’idea del copyleft, e cercò di combatterla con le stesse tattiche aggressive che la Recording Industry Association of America (RIAA) ed i suoi amici stanno scatenando contro la comunità del filesharing. Tra le più famose, le azioni legali della SCO contro le compagnie che utilizzano o promuovono Linux.[8]
Le azioni della RIAA possono essere comprese allo stesso modo, come una reazione conservatrice per proteggere i propri interessi. Tuttavia, non tutti i detentori della proprietà credono che l’azione legale possa impedire a nuove tecnologie di emergere. Molti credono che l’industria musicale e cinematografica dovrà adattarsi e che la legge sul copyright debba essere modificata per questo ambiente in trasformazione.
COPYJUSTRIGHT
Così, proprio come il capitale si è unito al movimento del software copyleft per ridurre il costo dello sviluppo del software, esso si sta anche unendo al movimento artistico copyright-dissidente per integrare il filesharing ed il campionamento in un sistema di controllo altrimenti basato sulla proprietà.
Dato che il copyleft non permette l’estrazione della rendita per il diritto di copia, ciò che i detentori della proprietà vogliono non è qualcosa che sfidi il regime della proprietà, ma piuttosto crei altre categorie e sottocategorie affinché pratiche come il filesharing ed il remixing possano esistere entro il regime della proprietà. In altre parole, copyjustright. Una versione più flessibile del copyright che possa adattarsi ad utilizzi moderni, ma comunque ultimamente incarnare e proteggere la logica del controllo. L’esempio più lampante di ciò sono i cosidetti Creative Commons e la miriade di licenze ‘just right’. ‘Alcuni diritti riservati’, il motto del sito dice tutto.
La legge ferrea degli introiti da copyright rende ovvio che non sarà per i creatori di musica, video ed altri lavori creativi sotto licenza che ‘alcuni diritti saranno riservati’, dato che gli artisti non hanno mezzi per contrattare niente di più della sussistenza. Degli ‘alcuni diritti’ riservati, quello primario è il diritto dei creatori di trasferire la proprietà di questi lavori alla classe possidente. Ogniqualvolta la classe possidente vi trovi interessi per assumerne la proprietà e, ovviamente, del tutto nei termini da essa dettati.
Questa legge ferrea è illustrata in ‘Artists’ Earnings and Copyright’[9] di Martin Kretschmer, dove egli conclude che ‘Il creatore ha poco da guadagnare dall’esclusività’ e nel suo studio del 2006, Empirical Evidence On Copyright Earnings[10] che afferma: ‘gli introiti provenienti da attività non-copyrighted, e persino non-artistiche rappresentano un’importante fonte di reddito per molti creatori’ includendo molte statistiche sconcertanti, come ad esempio il dato che il compenso mediano distribuito dalla Performing Right Society (UK) nel 1994 ai suoi detentori di copyright è stato di £84.
Quindi, se né il copyleft, il copyright od il copyjustright possono superare la legge ferrea ed aumentare infine la ricchezza degli artisti e di altri lavoratori come classe, esistono del tutto ragioni per cui un socialista possa interessarsi alle licenze di proprietà intellettuale?
I socialisti promuovono l’idea che la ricchezza debba essere distribuita più giustamente ed equamente, e controllata dalle persone che la producono. Forse, il metodo migliore per far sì che questo avvenga è attraverso imprese, cooperative e consigli decentralizzati e di proprietà dei lavoratori. Per i socialisti interessati nell’auto-organizzazione dei lavoratori e nella produzione basata sui common come mezzi di lotta di classe, la risposta è un ‘sì’.
Per la stessa ragione per cui le organizzazioni capitaliste supportano il software copyleft, in qualità di rappresentante di uno stock comune di valore d’uso che possono applicare alla produzione per creare valore di scambio e quindi far soldi, la produzione basata sui common e quindi tutte le imprese auto-organizzate dei lavoratori possono anch’esse beneficiare di tale stock comune di arte copyleft, e possono incorporare gli artisti nelle loro imprese collettive e condividere il reddito risultante.
Come gli International Workers of the World enunciano nel preambolo alla loro Constituzione (1905):
Al posto del motto conservatore, ‘un salario onesto giornaliero per un lavoro onesto giornaliero’, dobbiamo inscrivere sul nostro stendardo la parola d’ordine rivoluzionaria, ‘Abolizione del sistema dei salari’. E’ una missione storica per la classe operaia sbarazzarsi del capitalismo. L’esercito della produzione deve essere organizzato, non solo per la lotta giornaliera contro i capitalisti, ma anche per proseguire la produzione quando il capitalismo sarà stato deposto. Organizzandosi industrialmente stiamo formando la strutture della nuova società entro il guscio della vecchia.
COPYFARLEFT
Perché il copyleft abbia qualsiasi potenziale rivoluzionario, deve essere Copyfarleft. Deve insistere sulla proprietà da parte dei lavoratori dei mezzi di produzione.
A tal fine, una licenza non può avere un singolo set di termini per tutti i fruitori, ma piuttosto deve avere regole differenti per classi differenti. Nello specifico, un set di regole per chi lavori entro il contesto della proprietà dei lavoratori e della produzione basata sui common, ed un altro per chi impieghi nella produzione la proprietà privata ed il lavoro salariato.
Una licenza copyfarleft dovrebbe rendere possibile per i produttori condividere liberamente e trattenere il valore del prodotto del proprio lavoro, in altre parole deve essere possibile per i lavoratori guadagnare applicando il proprio lavoro alla mutua proprietà, ma impossibile per i detentori della proprietà privata guadagnare utilizzando lavoro salariato.
Così, sotto una licenza copyfarleft, una stamperia cooperativa, di proprietà dei lavoratori, potrebbe essere libera di riprodurre, distribuire e modificare l’insieme dei common a proprio piacimento, ma ad un editore privato ne sarebbe precluso il libero accesso.
Un trend nei lavori degli artisti pro-copyleft sembra esservi connesso. Le licenze copyleft Non-Commerciali creano due set di regole, con utilizzi teoricamente endogeni (che si originano entro i common) ‘non-commerciali’ che vengono permessi, mentre gli utilizzi esogeni (che si originano al di fuori dei common) ‘commerciali’ sono proibiti, eccetto che con il consenso degli autori originali. Esempi di tali licenze includono la licenza Creative Commons Non Commerciale Condividi allo Stesso Modo.
Tuttavia, al fine di creare termini endogeni per i common, le stesse opere devono essere nei common, e fino a quando gli autori riserveranno il diritto di guadagnare da tali opere e preverranno altri produttori basati sui common dal farlo, l’opera non può essere affatto considerata essere nei common, è un’opera privata. Come tale, non può avere termini common non endogeni, come richiederebbe una licenza copyfarleft. Questo problema di creare ‘azioni common’ per le opere che non siano realmente un insieme di common è tipica dell’approccio Copyjustright, che caratterizza le Creative Commons.
Una licenza copyfarleft deve consentire l’uso commerciale basato sui common, negando la possibilità di trarre profitto dallo sfruttamento del lavoro salariato. L’approccio copyleft Non-Commerciale non fa niente di tutto ciò, prevenendo il commercio basato sui common, e limitando lo sfruttamento del salario solamente col richiedere agli sfruttatori di dividere parte del bottino con il cosiddetto autore originale. In nessun modo ciò supera la legge ferrea, sia per gli autori che per altri lavoratori.
‘Non Commerciale’ non è un modo appropriato di descrivere il confine endogeno/esogeno richiesto. Tuttavia, non esiste un’altra licenza common che fornisca un framework giuridico adeguato per l’utilizzo da parte dei produttori basati sui common.
Solo una licenza che effettivamente prevenga l’impiego di proprietà alienata e di lavoro salariato nella riproduzione degli altrimenti liberi common dell’informazione può cambiare la distribuzione della ricchezza.
#1 di Florian il Agosto 11, 2012 - 6:25 pm
Dopo aver trovato questo post introduttivo mi sono andato a riprendere la copia del Manifesto Telecomunista che lessi tempo fa, devo dire che dal libro si chiariscono un pò di punti per quanto riguarda il meccanismo ideato da Kleiner, tuttavia alcuni dubbi mi rimangono in merito alla sua funzionalità.
Alla fine del testo Kleiner espone in maniera giuridica le regole della sua licenza, dove i passi fondamentali sono:
“c. Tu potrai esercitare i diritti concessi con finalità commerciali se:
i. sei un’ impresa di lavoratori-proprietari o un collettivo di lavoratori-proprietari
ii. tutto il guadagno è distribuito tra i lavoratori-proprietari.
d. Ogni utilizzo da parte di imprese che sono proprietà o gestione privata, e che cercano di trarre profitto dal lavoro di lavoratori dipendenti stipendiati o retribuiti in altro modo, non è permesso secondo i termini di questa licenza.”
Geniale pare, non-“non commerciale” ma “commerciale-dipende-da-chi”…
A sdubbiarmi innanzitutto (ma lo dico non per fare critica proprio per ragionarci sopra) è la fattibilità pratica di tale distinzione, ho tanto l’ idea che non sarebbe per niente facile identificare nettamente gli appartenenti ad una o all’ altra categoria (dal punto di vista giuridico intendo), mi vedo tanto che Apple riuscirebbe a farsi spacciare per cooperativa con qualche spicciola pratica burocratica, non lo so…
Ma più che altro mi pare che questa licenza sarebbe vincolante l’ opera oggigiorno, ovvero, se tu scrivi un libro e lo pubblichi sotto sopyfarleft (cosa che Kleiner ha fatto), dopo da chi te lo puoi far pubblicare? Solo da piccoli gruppi editoriali, dall’ editoria “etica”, senza poter, per licenza, passarlo a pubblicare con grandi case editoriali?
Forse anche questa è l’ idea di Kleiner, idea che però lascia il tempo che trova a mio avviso… se volete approfondisco la questione ma per farla in breve -> Annosa questione Mondadori.
Mi è infine venuto in mente, ma forse non c entra proprio un cazzo, l’ introduzione di questa licenza alla luce delle dinamiche di anarco-capitalismo e capitalismo cognitivo basato sullo sfruttamento del lavoro collettivo che stanno avvenendo ultimamente, e ci metterei dentro anche i casi di Android e Ubuntu, che riescono a ricavare introiti proprio sfruttando il mondo dell’ open, talvolta creando squilibri all’ interno di esso.
E mi chiedo dunque: e se un modello di licenza come quello ideato da Kleiner fosse la “toppa” ideale per questa falla nel sistema open? Se lo sfruttamento cognitivo che il capitalismo ha saputo fare del libero accesso alle informazioni fose debellabile seguendo l’ onda dell’ idea di Stallman, ovvero ponendo ulteriori vincoli ai detentori di proprietà intelettuale con l’ introduzione di una nuova licenza?
Forse sto delirando, forse ho sparato cazzate grandi come case e mi dispiace, ma non è mai facile trovare qualcuno con cui parlare a livello approfondito di queste questioni.
Una cosa comunque è certa: quando un anarchico si mette a fare il riformista ha davvero una gran fantasia! 😀