Continuiamo l’analisi della tenuta mediatica del #19o (qui la prima parte). L’ipotesi di un blocco delle reti cellulari (e della connettività internet mobile) ventilata dai media mainstream a poche ore dal corteo ha rappresentato una forma di sottile minaccia diretta nei confronti di quanti si apprestavano a parteciparvi. Per quali ragioni? Quali meccanismi psicologici avrebbe dovuto attivare? A quale dimensione cognitiva faceva riferimento? Quali ricadute avrebbe potuto avere sull’andamento della giornata? Nei prossimi giorni pubblicheremo la terza parte, analizzando un caso specifico di panico distribuito ingeneratosi su Twitter la mattina del #19o.
Buona lettura.
«Ue! Ciao! … ma a te va il cellulare?»
Piazza S. Giovanni in Monte, Roma, 18 ottobre 2013, h:22.00
18 ottobre. É da poco passato mezzogiorno quando diverse testate on line (tra cui il Corriere della Sera Roma, il Tempo ed il Giornale) cominciano a far filtrare dalle loro colonne una notizia: i tecnici delle forze dell’ordine sarebbero al lavoro per isolare le celle di telefonia mobile dislocate lungo il tragitto del corteo che il giorno successivo attraverserà la capitale. Lo scopo di questa misura sarebbe quello di impedire che non meglio precisati «gruppi di violenti» possano utilizzare smartphone e telefoni portatili per coordinarsi tra di loro ed attaccare la polizia durante la manifestazione. Nonostante la voce non venga confermata da alcuna fonte ufficiale (ed anzi in serata verrà seccamente smentita dalla questura di Roma) poco alla volta prende piede e comincia a diffondersi in rete e su alcune radio.
Il prefigurarsi dell’ipotesi lascia di sasso parecchi, sebbene un minimo di logica ne avrebbe dovuto suggerire immediatamente l’infondatezza. In primo luogo perché l’isolamento delle celle telefoniche nel pieno centro di Roma avrebbe significato il blocco delle telecomunicazioni per decine (se non centinaia) di migliaia di residenti e lavoratori: con quali ricadute e costi economici è solo possibile immaginarlo. Se è vero poi che historia magistra vitae, allora non va dimenticato che tale misura non venne messa in atto neppure dal governo Cameron durante i riots del 2011, quando la stampa di tutto il mondo insisteva (sbagliando) sulla centralità che avevano avuto i Blackberry nel propagare il fuoco della rivolta: allora i vertici dell’esecutivo britannico temettero che l’imposizione di un eventuale blackout alla rete di telefonia mobile avrebbe avuto ricadute devastanti per l’immagine della Gran Bretagna all’estero. Terzo e non marginale dettaglio, l’eventuale interruzione delle linee di telefonia mobile avrebbe interessato, oltre che residenti, lavoratori e manifestanti, anche gli stessi giornalisti mainstream e le forze dell’ordine.
A suggerire l’inconsistenza della possibilità di un oscuramento della rete cellulare concorreva dunque più di una motivazione. Cionondimeno la ragione per cui questa sia stata ripresa da più parti non va ricercata esclusivamente nella proverbiale voracità per il sensazionalismo che caratterizza il sistema informativo odierno. Né siamo di fronte ad una semplice boutade architettata da qualche giornalista troppo zelante. Al contrario nel 2013 ventilare l’evenienza di un’interruzione della connettività, operata in modo attivo durante una mobilitazione, equivale a formulare una sottile minaccia nei confronti di quanti vi prenderanno parte. Una sorta di avvertimento preventivo le cui implicazioni risiedono sia nell’attivazione di precise dimensioni cognitive sia nelle mutazioni antropologiche in corso, connesse alla sempre maggior diffusione di smartphone e dispositivi digitali portatili.
Ad un livello più esteriore l’immagine di un blackout di internet o di una rete telefonica accende nella mente dello spettatore immagini che rimandano a scenari storici recenti, attraversati nella maggior parte dei casi da elevatissimi livelli di conflittualità sociale e violenza politica (basti pensare all’Egitto di Mubarak nel 2011). Tale visione è foriera di un timore immediatamente consequenziale: quello secondo cui la manifesta volontà di interrompere le comunicazioni tra un corteo ed il resto del mondo sia il preludio di una ferocissima repressione poliziesca, facilitata dalla mancanza di una copertura informativa che potrebbe mettere in imbarazzo coloro che se ne sono resi responsabili di fronte all’opinione pubblica (dopo il G8 di Genova del 2001 si potrebbe discutere a lungo della validità di tale asserzione ma questo è un altro paio di maniche). Per dirla in altro modo: «se hanno qualcosa da nascondere hanno qualcosa da temere. E noi con loro». In questo senso l’eventualità, agitata a mezzo stampa, dell’imposizione del “buio informativo” reca con se anche un altro messaggio implicito: essa allude ad una superiorità tecnologica dispiegata con l’intento di neutralizzare quelle forme di comunicazione sociale distribuita che oggigiorno sono elemento integrante per la buona riuscita di una mobilitazione. C’è poi un altro piano del discorso da prendere in considerazione. Smartphone e connessioni mobili sono divenuti negli ultimi anni elementi centrali nelle modalità attraverso cui la percezione della realtà circostante viene mediata e costruita: il loro venir meno pertanto può essere causa di disorientamento, confusione ed incertezza. In secondo luogo non può essere ignorato come tali dispositivi rappresentino ormai di fatto un’estensione materiale delle nostre capacità sensoriali dal momento che ad essi affidiamo tutta una serie di dati emotivamente significativi (si pensi per esempio al rapporto che intercorre tra senso dell’orientamento e GPS o memoria e motori di ricerca). Esserne privati in maniera coercitiva equivale perciò a subire una forma di lesione o menomazione, non dissimile da quella procurata da un dito mozzato o da un occhio accecato. Il fatto che tale possibilità venga insinuata a mezzo stampa equivale ad affermare pubblicamente che per motivi di ordine pubblico è stata predisposta una forma di offesa attiva, una sorta di “manganello digitale” sventolato sotto gli occhi di tutti e pronto a calare indistintamente sulle teste di quanti avrebbero partecipato al corteo.
L’ipotesi del blocco della connettività cellulare ha rappresentato quindi un ulteriore tassello aggiunto dal media mainstream nel tentativo di cingere la giornata del #19o da una cornice narrativa e da meccanismi psicologici in grado di indurre fenomeni di panico diffuso. La cosa paradossale è che, in un contesto affollato e ad alta densità tecnologica come quello del #19o, se tali meccanismi avessero realmente attecchito a livello mentale, le reti cellulare avrebbero rischiato realmente un blackout, senza che però questo venisse provocato da alcun agente esterno. Come? Semplice: in virtù del timore di un blocco della rete cellulare propagandato dal mainstream, al minimo accenno di malfunzionamento di questa, le persone presenti in piazza avrebbero probabilmente cominciato ad effettuare chiamate di prova per saggiarne la tenuta. Le celle sarebbero state così progressivamente sovraccaricate di una quantità di traffico maggiore di quella che sono normalmente in grado di sopportare ed avrebbero finito per collassare. Il panico a quel punto avrebbe finito con lo scatenarsi per davvero.
Ci pare siano almeno due i punti interessanti che emergono dalla decostruzione del dispositivo che abbiamo preso in esame. Primo, che anche in questo (esattamente come per il “manifestometro”) la dinamica di attivazione del panico viene traslata da un piano morale (dove la minaccia che provoca un’ondata emotiva è individuata in un gruppo di persone o in un episodio specifico) ad un piano tecnico. Secondo, essa mette in luce come i meccanismi di panico non sono mai semplicemente calati dall’alto: nell’era dell’autocomunicazione di massa essi prevedono una partecipazione proattiva in grado di decretarne il successo o il fallimento finale. Vediamo un altro esempio.
Hoax distribuite
I riot inglesi dell’agosto 2011 erano stati in grado di mettere in luce il “volto oscuro” di Twitter: allora, in almeno cinque differenti occasioni, i messaggi postati in 140 caratteri si trasformarono in vettori comunicativi fuori controllo che propagarono ondate di disinformazione, spesso alimentate inconsapevolmente da influencer ed opinionisti autorevoli. Due sono le bufale più memorabili degli UkRiot degne di essere raccontate. La prima era stata innescata da un’istantanea massicciamente circolata in rete l’8 agosto 2011: immortalava alcuni reparti dell’esercito egiziano nelle strade del Cairo durante le rivolte avvenute nel febbraio dello stesso anno ed era stata spacciata come prova della presenza delle truppe britanniche nel centro di Londra. La seconda invece ritraeva una tigre che, a detta dello sciame su Twitter, era riuscita a fuggire da uno zoo della capitale dopo un presunto assalto dei rivoltosi.
Scherzi di un sistema di comunicazione istantaneo, ininterrotto, distribuito ed asincrono. Con toni meno bizzarri e una portata nettamente più circoscritta, un evento di questo tipo ha rischiato di ingenerarsi anche nella mattina di sabato 19 ottobre. La vigilia della manifestazione era trascorsa all’insegna della tensione: punte di criminalizzazione preventiva elevatissime, cariche indiscriminate delle FFOO contro un gruppo di attivisti che la mattina del 18 volantinavano al mercato del Pigneto, sequestro di un furgone di proprietà di un militante romano (accusato di nascondervi un “pericoloso arsenale”, mai mostrato al pubblico), circolari inviate negli ospedali prossimi al tragitto del corteo che invitavano a liberare il maggior numero di posti letto possibili in vista degli incidenti previsti per il giorno successivo, chiusura coatta della Sapienza su ordine del questore Fulvio della Rocca e notizie, false ed incontrollate, secondo cui un pezzo di percorso della manifestazione sarebbe stato vietato all’ultimo momento.
A una manciata di ore dell’inizio del corteo un’altra voce si va ad aggiungere al vortice di rumors già in circolazione. Il suo epicentro è proprio Twitter. Nella prima mattinata un utente pubblica 3 fotografie recanti tutte in calce la medesima didascalia: «#19o. Ecco come gli sbirri si preparano per infiltrarsi».
Le immagini sono generiche e ritraggono agenti di polizia intenti nello spostare sacchi di cellophane contenenti indumenti, caschi ed altri oggetti non meglio specificati. Non è riportata alcuna fonte, non viene indicato il luogo in cui sono state scattate né in quale momento. Nessuno ne ha verificato l’attendibilità e tanto meno l’identità della persona che le ha diffuse. Eppure le fotografie cominciano a circolare rapidamente sul social network: una di queste verrà retwittata più di 50 volte raggiungendo così un audience composta potenzialmente da decine di migliaia di persone.
Ad evitare che il fuoco divampi è l’intervento accorto di diversi utenti che cominciano a domandare all’autore dei tweet quale sia l’origine degli scatti: la mancanza di una qualsivoglia risposta da parte dell’interessato fa subito dubitare della loro autenticità. Comincia così un processo di fact checking e verifica collettiva in rete che chiarisce la provenienza delle fotografie: si tratta di immagini risalenti ad una manifestazione studentesca, svoltasi nella capitale il 14 novembre del 2012, al termine della quale la polizia aveva sostenuto di aver rinvenuto sul Lungotevere i sacchi in questione. Le acque vengono definitivamente calmate dall’intervento di uno stimato videomaker che pubblica un tweet in proposito. Una figura che in questo caso assurge al ruolo di influencer: sia per la sua nota professionalità, sia per la fiducia che in molti gli attribuiscono per via della sua risaputa vicinanza ai movimenti sociali. Chi aveva ripubblicato le immagini si accorge dell’errore, annulla i retweet e posta messaggi di rettifica.
Com’è stato possibile dunque che queste foto, prive di qualsiasi riferimento che ne sancisse la collocazione temporale e geografica, si siano propagate con tanta facilità? Le risposte possono essere diverse e tutte valide allo stesso tempo. In prima battuta ha sicuramente ha contribuito la tensione sociale e l’attenzione di cui era stata caricata la giornata. In secondo luogo lo spettro dell’“infiltrato”, pur assumendo tonalità più sbiadite rispetto a qualche anno fa, rimane una piaga che ancora ammorba la cultura politica di tanti settori sociali e di movimento (una lettura utile sul tema rimangono le pagine lasciateci da Victor Serge dove viene spiegato a chiare lettere come «non v’è nessuna forza al mondo che possa arginare l’impeto rivoluzionario quando questo sale, e tutte le polizie, qualunque sia il loro machiavellismo, la loro scienza, e il loro crimini, sono pressoché impotenti»). Infine c’è da considerare come probabilmente le fotografie in questione siano state ritenute verosimili da molti utenti non in virtù del loro contenuto ma del numero di retweet che queste avevano ricevuto. Una logica questa che è perfettamente aderente alle dinamiche sociali del web 2.0, dove “popolarità” e “qualità” divengono sinonimi «nella convinzione che molte idee soggettive si trasformino per incanto [..] in oggettiva verità rivelata, nel momento in cui superano un certo numero e diventano la maggioranza»*. Esattamente come accade per un video con molte visualizzazioni su Youtube, un post “consacrato” da molti like su Facebook o una pagina web che ha un ranking d’indicizzazione alto su Google solo perché riceve molti link in entrata da altri siti.
L’hoax (terminologia hacker che sta ad indicare l’equivalente di panzana) della polizia che si prepara ad infiltrarsi ha il pregio di ricordarci tre cose: primo che Twitter è un sistema di comunicazione distribuito e che se utilizzato male può essere il vettore ideale per distribuire il panico. Secondo che spesso e volentieri siamo noi stessi ad esserne involontari ed inconsapevoli fautori. E terzo che la calma può essere riportata da un’opera di verifica, analisi e revisione da attuare e veicolare collettivamente.
*Altro aspetto della logica tecnocratica. Anche per questo si veda Ippolita, “Luci ed ombre di Google”, pp 135, 2007, Milano, Feltrinelli.
Nota a margine del testo
Un punto di vista antagonista si costruisce tenendo sempre un occhio all’immediato ed uno all’infinito. Il fatto che sabato 19 ottobre non sia stato messo in atto alcun blocco della connettività nei confronti dei manifestanti non significa necessariamente che questo non possa verificarsi durante mobilitazioni future. In Spagna per esempio il movimento #M15 è stato oggetto di blackout delle reti 3G, indotti dalla polizia mediante il ricorso ad inibitori che ne localizzavano gli effetti su porzioni circoscritte del corteo. Che fare se un’eventualità simile dovesse prodursi anche in Italia? Ma ovviamente.. keep calm! Il problema infatti può essere aggirato chiedendo a quanti vivono lungo il tragitto del corteo di aprire il loro wifi in modo da renderlo disponibile per chiunque. Non bisogna poi mai dimenticare che una manifestazione è un corpo collettivo dotato di strumenti di comunicazione e cinghie di trasmissione spesso più rodate ed efficaci di uno smartphone: il megafono umano mica se l’è inventato Occupy Wall Street!
(continua…)
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