Sottotitolato in italiano dal team di traduttori di Infoaut.org, Red! arriva sugli schermi dei vostri computer al momento giusto. Prodotto dalla casa cinematografica indipendente BSM, questo documentario dal ritmo incalzante ha infatti il pregio di addentrare lo spettatore, anche quello a digiuno di tecnologia, in uno dei terreni più inesplorati e allo stesso tempo qualificanti dei conflitti odierni: quello dell’hacktivism, termine derivato dalla commistione di due parole (hacking e activism) che individua nei dispositivi e nei network digitali un terreno di scontro e cambiamento sociale.
A reggere il filo rosso dei sessanta densissimi minuti di filmato (tutti liberamente visualizzabili su Youtube) ci sono le voci dei Redhack, celeberrima crew di hacker comunisti turchi salita recentemente alla ribalta delle cronache per aver partecipato a giugno alla rivolta di Gezi Park. Data di fondazione 1997, questa formazione di hacktivisti aveva però fatto parlare di sé già in passato, sia per il suo supporto alla causa curda che per l’intrusione nei sistemi informatici del direttorato della polizia di Ankara. Il suo exploit più clamoroso tuttavia era stato quello che aveva portato alla violazione della rete del Concilio Turco per l’Alta Educazione, dai cui database erano emersi decine di migliaia di documenti che testimoniavano quanto il fenomeno della corruzione fosse radicato nella gestione del sistema educativo del paese. Un attivismo costato caro a diversi membri dell’organizzazione, additati come terroristi dalla stampa locale ed arrestati dalle autorità con capi d’imputazione che prevedono pene fino a ventiquattro anni di detenzione.
Abilmente intessuta dal regista Mustafa Kenan Aybastı, la trama dell’epopea dei RedHack non viene però circoscritta alla sola infosfera turca. Al contrario la struttura dell’opera, pur prendendo le mosse dalla loro vicenda particolare, si dota di un ampio respiro narrativo ed ha l’ambizione di gettare uno sguardo approfondito su quel variegato universo fatto di esperienze di conflitto mediato dalla rete che vanno sotto il nome di hacktivism.
A fare da sfondo la controrivoluzione neoliberista e lo slittamento del sistema produttivo verso il paradigma post fordista da cui Internet emerge come nuovo campo di battaglia. Un terreno questo tutt’altro che pacificato, attraversato com’è da un nugolo di acute tensioni: l’identità verificatasi tra economia globale ed economia di rete, ha reso infatti il web un boccone succulento per stati, multinazionali ed organizzazioni criminali in competizione tra loro per assicurarsene il dominio. Uno scontro senza quartiere i cui primi target sono milioni di utenti ignari, la cui accresciuta dipendenza dai network digitali li rende facile preda delle mire di attori senza scrupoli, interessati a saccheggiarne i dati su larga scala o ad implementare regimi di censura e sorveglianza sempre più feroci e capillari.
Ma «dove c’è crudeltà, è legittimo ribellarsi», dice Sirine, una delle hacktiviste di RedHack. E se lo sviluppo della tecnologia ha posto le basi per rinnovate forme di sfruttamento, comando e controllo, deviarne il corso, sovvertirla, metterci le mani sopra, hackerarla e produrre nuovi strumenti per armare l’opposizione al potere è sempre possibile. Quali sembianze dovrebbe assumere allora questa ribellione? Tenuto conto delle debite differenze, vi è un solo postulato che accomuna tutte le esperienze di hacktivism da Redhack ad Anonymous passando per Wikileaks: l’informazione, tutta l’informazione, deve essere libera. Nondimeno secondo gli hacker in rosso (che si definiscono come «una forza di attacco, difesa, ricerca e sviluppo dei lavoratori turchi») obiettivo primo dell’hacktivism è quello di modellare l’opinione pubblica, utilizzando internet come rampa di lancio e vettore di propaganda.
Mettere fuori gioco i siti istituzionali della provincia di Sivas per ricordare il massacro degli intellettuali aleviti consumatosi nel luglio del 1993; fare incursione nei server della municipalità di Istanbul per cancellare tutte le multe inflitte ai cittadini; prendere possesso di portali web governativi ed utilizzarli come vetrina per diffondere messaggi a favore del movimento durante le proteste di Gezi Park; sono tutte pratiche per creare pressione sullo spazio pubblico dell’informazione e spezzarne l’equilibrio simbolico, matrice e collante delle rappresentazioni che il potere da di sé stesso.
«Se l’egemonia ideologica è una guerra contro la consapevolezza, il cyberspazio è uno dei fronti più importanti» su cui combattere per sabotare le tassonomie concettuali e le gerarchie cognitive che strutturano il movimento del pensiero ed ordinano la nostra percezione dell’ambiente circostante. Qual’è stato allora il colpo più audace messo a segno dai RedHack nella Turchia di Tayyip Erdoğan? Semplice. Quello di aver hackerato l’idea che il popolo aveva dell’AKP. Dopo un decennio di dominio incontrastato in cui il partito islamista conservatore era sembrato intoccabile, un manipolo di attivisti dotato di risorse limitate è stato in grado di metterlo sotto attacco e ridicolizzarlo in rete. La cortina di invulnerabilità che lo avvolgeva si è fatta meno spessa. Diradandosi ha lasciato spazio a tre parole, semplici e per questo potentissime: «Si può fare». Parole che, non abbiamo dubbi, tra gas lacrimogeni, proiettili e vite spezzate, risuonano martellanti nella testa dei ragazzi e delle ragazze di Istanbul, Ankara e Smirne che da mesi si stanno scontrando in piazza col regime.
Non stupisce che in patria i RedHack siano considerati alla stregua di eroi. Una popolarità cui fa da contraltare una repressione indiscriminata che non manca di mietere vittime innocenti. È il caso di Duygu Kerimoglu, giovane studentessa universitaria arrestata con l’accusa di far parte dell’organizzazione di hacker e rilasciata solo dopo nove mesi di detenzione preventiva, nonostante l’assenza di prove a suo carico. Un episodio a fronte del quale gli autori del documentario, anche grazie al contributo di avvocati ed esperti di diritti digitali, lasciano cadere un secco interrogativo: chi è il terrorista? Un’autorità politica che nega le più elementari garanzie previste dallo stato di diritto o un gruppo di hacker che mette in luce come la corruzione, nascosta sotto una patina di legalità, venga eletta ad elemento strutturale del sistema? E ancora, com’è possibile che l’intrusione in un singolo sistema informativo, effettuato con l’intento di condividere le informazioni in esso contenute, venga considerato una forma di terrorismo, mentre la violazione sistematica della privacy delle nostre comunicazioni operata da sistemi di sorveglianza globale (come PRISM) sia ritenuta un mezzo per combatterlo?
La verità è un’altra. I RedHack, come Chelsea Manning, Edward Snowden o i ragazzi di Anonymous Italia non sono affatto dei terroristi. E la loro unica colpa non è neppure quella di essere hacktivisti ma di aver fatto una scelta: quella di schierarsi dalla parte dell’informazione libera. Una presa di posizione all’insegna di un vecchio adagio hacker, oggi più valido che mai: siamo noi a dover utilizzare la tecnologia e non viceversa. Hands on allora! Mettiamoci le mani sopra. Questo è l’insegnamento che possiamo trarre dalle loro storie. E questo è il messaggio che attraversa Red! dal primo all’ultimo fotogramma.
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