A meno di un mese dalla fine dell’ultima aggressione israeliana a Gaza proponiamo “Pillar of Defense chronicles”. Tre pagine Facebook: quella dei Gaza Youth Breaks Out, quella dell’esercito israeliano e quella di Anonymous #OpIsrael. Tre fuochi narrativi incrociati per raccontare la guerra d’informazione ai tempi di internet. La seconda parte verrà pubblicata lunedi 24 dicembre.
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Un luogo comune è uno spazio linguistico e culturale dove convergono banali ovvietà che il gruppo sociale scambia per compattarsi ed aumentare il livello di empatia reciproco: come davanti ad un fuoco, riunirsi attorno ad una parola o ad una frase condivisa scalda l’animo e rende più vicini. Il panorama di una guerra è punteggiato di posti di questo genere: tanti piccoli falò – se ne vedono a perdita d’occhio – brulicanti di individui che li alimentano con certezze leggere come cenere. Uno dei più frequentati è quello dove si racconta che sotto le bombe la prima a lasciarci le penne sia sempre la verità. Tuttavia a guardare lo svolgimento dell’operazione Pillar of Defense, verrebbe da replicare che se col termine si intende sbrigativamente ricorrere ad un sinonimo di realtà, allora nel bollettino di morti e feriti (o “casualties” per dirla con l’asettico e rassicurante corrispettivo anglofono) non troveremo nessuna vittima chiamata Verità. La verità è semmai un fronte dello campo di battaglia. Uno dei più importanti.
Attivare delle tecniche su un dato campo. Applicarle, giustificarle attraverso un discorso. Questa è la funzione dei media in quanto tecnologia politica. Lo era anche ai tempi dell’adagio di analogica memoria «Roveda, la lotta di classe la facciamo anche noi!» quando la macchina da presa la faceva da padrone. Lo è ancora di più oggi, in uno scenario mutato, certo da uno straordinario avanzamento della tecnica, ma anche dalla scomparsa di un’etica del combattimento, attraverso cui legittimare moralmente le proprie gesta belliche. Cosi gli alti comandi militari, mentre muovono le loro pedine sulle carte geografiche, tracciano mappe cognitive: dispiegano un febbrile lavorio di news management, da integrare alle strategie adottate sul campo, per controllare i flussi di informazione, produrre orizzonti di senso con caratteri di coerenza ed autoreferenzialità, imporre una propria definizione di realtà ed istituire regimi di verità socialmente accettati con cui giustificare la necessità della guerra. «Il campo di battaglia è sopratutto un campo di percezione che deve essere costruito in modo da controllare i movimenti dell’avversario» diceva il filosofo francese Paul Virilio. Una massima valida per descrivere le ragioni dello straordinario successo nazista in Francia, quando scarponi e cingolati tedeschi travolgevano l’obsoleta linea Maginot e, forti della innovativa tecnica della blitzkrieg, sfuggivano al mirino dei mitragliatori francesi, aggirando i bunker che avrebbero dovuto fermare la marcia della Wehrmacht verso Parigi. Una massima valida ancora oggi nell’era della “guerra tra la popolazione”, dove il 2.0 delimita spazi proiettati oltre la fisicità dei luoghi e tempi privi di sequenzialità: ben oltre l’antico dualismo di propaganda e la censura, le tecniche di comunicazione militare, lanciate alla conquista dell’opinione pubblica, prevedono un’estensione distribuita e decentralizzata dell’informazione perché l’inquadramento del discorso e la sua incorporazione nell’azione umana possano sfruttare la maggiore efficienza inscritta nella forma della rete. Come nell’economia di internet, anche in quest’ambito siamo prosumer: produttori e consumatori di informazioni.
Anche la nostra mente è il campo di battaglia.
Pagina Gaza Youth Breaks Out – Facebook – Internet – Tempo asincrono
Mancano poche ore al raggiungimento della tregua tra Hamas e Tel Aviv. I bombardamenti sulla striscia non si arrestano, come lo scorrere degli status sulla timeline del gruppo giovanile Gaza Youth Breaks Out. Un wall fatto di mattoni dal peso insostenibile: nomi, foto e brandelli di identità ridotti in byte dopo essere stati fatti a pezzettini dalla furia ad alto contenuto tecnologico degli F16 israeliani. Quasi tutti civili: molti di loro non arrivano a 18 anni. Alcuni neppure a 18 mesi. Così macabra eppure così necessaria, la satira di spinoza.it questa volta lascia il segno. «Israele» recita uno degli ultimi tweet, diventato immediatamente virale «colpisce obiettivi strategici. Prima che possano crescere».
La barra delle notifiche riprende a lampeggiare. Sulla pagina dei GYBO è apparso un filmato. Si tratta del detour di un video promozionale dell’associazione sionista “Israel in Context” le cui finalità sono brevemente spiegate in una pagina del sito ufficiale. «Israel in Context tratta le notizie del giorno e fornisce la storia, il contesto ed i fatti che circondano un particolare evento, incorporando sketch e umorismo affinché il pubblico possa comprendere l’intera storia, orientarsi meglio nei media e farsi una propria idea – Tutto questo grazie all’intrattenimento» . L’obiettivo è quello di rendere presentabili le politiche israeliane agli occhi del pubblico. Come nel video in questione, intitolato “I Support Israel”: davanti all’occhio della telecamera e sullo sfondo di paesaggi paradisiaci e quieti, si alternano una moltitudine di personaggi, delle più differenti etnie, età ed estrazioni sociali, che si dichiarano pronti ad abbracciare “la lotta per la libertà di Israele”. Uno stato rappresentato come un faro sull’arida collina mediorientale, schierato in difesa delle minoranze, dei diritti degli omosessuali, della libertà e della vita e per questo costantemente assediato da entità nemiche che vogliono distruggerlo. Fin troppo facile per gli autori del detour costruire un’altra prospettiva del filmato, intervallando ai fotogrammi originali quelli degli effetti dei bombardamenti degli ultimi giorni, dove il grido di libertà di una ragazza asiatica sfuma e si confonde col tonfo sordo dei missili e le urla terrorizzate dei bambini gazawi. Ma il secondo filmato non vuole affermare che il primo è una menzogna. Al contrario. Sembra piuttosto voler fornire altri particolari, crudi e scioccanti, per esplorare più in profondità il concetto di libertà dal punto di vista sionista e come questo comporti l’assoggettamento di un’intera popolazione.
Non è sempre semplice documentare quanto accade nella striscia di Gaza. E non solo per quelle che sono le condizioni che si impongono sul campo. Manca l’elettricità, manca internet, di frequente la rete cellulare è in sovraccarico oppure viene oscurata. Ma anche quando queste circostanze non si verificano qualcos’altro può andare storto. Spesso a mettersi di traverso sono proprio le grandi internet companies, solitamente incensate come paladine del flusso libero di informazione e della libertà d’espressione. È successo a Rosa Schiano, giovane e coraggiosa fotografa napoletana che, dopo aver pubblicato su Facebook (oltre che naturalmente sul suo sito personale) le fotografie dei bimbi palestinesi uccisi durante i raid, non ha potuto accedere alla propria pagina per 24 ore. Alla stessa sorte sono andati incontro alcuni amministratori dei GYBO che, dopo essersi visti bloccare alcuni account e censurare decine di fotografie, sono ricorsi ad un banale espediente, linkando automaticamente sulla pagina Facebook i loro contenuti pubblicati su Twitter. Un episodio che racconta come in guerra ognuno resiste, attacca e si difende con gli strumenti che ha a disposizione. Ma che mette anche in evidenza come in questo conflitto bellico, ed in quelli futuri, un ruolo sempre più preponderante sarà assegnato ai grandi nodi di mediazione dell’informazione, come Twitter, Facebook o Google. Soggetti in grado di sviluppare norme e codici della rete, sottraendoli così parzialmente al potere delle burocrazie tradizionali e delle istituzioni politiche formali. La loro autorità, fondata sulla centralità dei social media in quanto elementi costitutivi delle pratiche di comunicazione sociale, si sposta dal pubblico al privato. Il loro potere è quello di tracciare i confini di accesso all’informazione, allargando o restringendo la visuale del campo di battaglia. La loro capricciosa policy – l’incerto e volubile regolamento interno che ne ordina l’ecosistema digitale – assume un peso sempre maggiore negli affari internazionali (come accaduto due mesi fa in occasione degli assalti alle ambasciate statunitensi). Per dirla con Ippolita, il concetto di pubblico risulta stravolto da questi nuovi assetti di potere globale: le foto di Rosa Schiano sono pubbliche nel senso di gestite da Facebook, pubblicate da Facebook e rese disponibili da Facebook. Che è una società privata.
«Maledetti ebrei!» scrive in inglese Rashid, uno studente del Cairo, tra i commenti che fanno da cornice e didascalia ai tanti brevi filmati dal fortissimo impatto emotivo, ripresi per le strade della striscia e postati sulla pagina dei GYBO. Uno dei più significativi a spiccare è quello del Gaza Parkour Team: una gruppo di ragazzi gazawi che, durante i bombardamenti, indossate le magliette con stampato il logo della crew, compierà le sue acrobazie contro un cielo sul cui sfondo si stagliano le esplosioni provocate dai missili sganciati dai caccia. Resistenza pura ed un messaggio chiaro: ci vuole ben altro per fiaccare il morale del popolo palestinese. Ma le parole di Rashid non vengono prese bene dagli amministratori della pagina che subito replicano seccati: «Non c’entra un cazzo che siano ebrei! Sono sionisti». Passano i minuti e, mentre a qualche centinaio di chilometri un ufficiale della Israel Defense Force sta pilotando con un joystick il prossimo “missile intelligente” che si schianterà su Gaza, i GYBO specificano sulla loro bacheca: «Vi sarete accorti che alcuni dei nostri supporter arabi usano la parola “ebreo”… questo è perché o non conoscono la differenza tra i sionisti e gli ebrei o perché non hanno un inglese particolarmente fluente e non sanno che termini usare. Vi assicuriamo che i palestinesi non hanno alcun problema con le appartenenze religiose.. La nostra lotta è contro l’oppressore sionista. Apprezziamo il vostro supporto». Una lotta a cui loro stessi chiamano, chiedendo alla comunità, creatasi intorno alla loro pagina, di aiutarli per mettere a tacere gli sciami di sionisti che, in modo organizzato, la stanno infestando «irridendo la morte dei nostri piccoli». I GYBO invitano a fare massa critica al grido del celeberrimo meme “Don’t panic! Organize”: Scrivere a Facebook perché la loro pagina non sia oggetto di un black out deciso in qualche ufficio californiano; ripubblicare le fotografie delle iniziative di solidarietà che si stanno svolgendo in tutto il mondo; sostenere gli hashtag (come #protestforgaza o #longlivegaza) lanciati su Twitter. Chiunque può si dia da fare con gli strumenti a disposizione per catalizzare attenzione: nell’overload dell’informazione globale è un salvagente a cui aggrapparsi per non essere travolti dalla corrente di una narrazione coordinata, smaccatamente filo-israeliana. E molto ben organizzata. Anche in rete.
(continua…)
Infofreeflow (@infofreeflow) per Infoaut
Approfondimenti
- Una guerra di nervi, una guerra cognitiva: un’interessante riflessione apparsa sul portale info404.
- Nell’acquario di Facebook: sull trasformazione dei concetti di pubblico e privato all’interno delle piattaforme di social networking commerciali si vedano le pp. 46-50
- Gaza Youth Breaks Out!: la pagina Facebook ufficiale del gruppo.
- Il blog di Oliva: sito personale di Rosa Schiano.
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