Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Silvano Cacciari – Docente all’Università di Firenze ed animatore del portale di controinformazione Senza Soste – durante il ciclo di incontri “Informazioni di Parte. Per un nuovo mediattivismo tra disordine globale e narrazioni insorgenti”, nel dibattito tenutosi lo scorso maggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna.
Vi si delineano importanti nodi teorici e pratici da sciogliere per un discorso ed una pratica antagonista di contropotere mediale.
Quali sono le radici storiche del discorso egemonico mediale delle classi dominanti? Quali limiti della sinistra istituzionale e di movimento rispetto alla comunicazione mediale hanno permesso il radicarsi di quest’egemonia? Attraverso quali forme si esprime, e come riesce a connettere ed a presidiare il tessuto delle società contemporanee?
Nelle prossime settimane proseguiremo la pubblicazione degli interventi degli altri relatori, Carlo Formenti e Federico Montanari.
Il passaggio del testimone dell’egemonia contemporanea
Per costruire il filo di narrazione della relazione di oggi bisogna che vada ad un paio di aneddoti che riguardano la giornata di ieri. Ieri per motivi di lavoro ho dovuto presenziare ad un convegno “letale” che era sulla figura di una pedagogista toscana del PCI, purtroppo morta prematuramente […] Il puntino interrogativo che questi pedagogisti (che si occupano sostanzialmente di formazione dalla primaria alla secondaria) non riuscivano a risolvere, era questo: noi avevamo quell’egemonia sui comportamenti microfisici della società italiana durante gli anni ’60 e ’70 poi contavamo come operatori della formazione, avevamo un ruolo politico che aveva una centralità; poi improvvisamente è sparito tutto, non siamo più riconosciuti nel territorio, non siamo più riconosciuti nelle università e soprattutto non abbiamo capito come ciò sia avvenuto. Ovviamente io non sono intervenuto se non a monosillabi, abbassando i microfoni – e qualcosa avrei voluto dirlo – però era interessante vedere il fortissimo disagio che il pensiero della formazione di sinistra ha di fronte ad un mondo il quale (comunque ancora dopo trenta anni che è emerso) manca ancora di criteri di interpretazione. Poi sono andato a cena tardi (purtroppo per me) con alcuni amici e ho trovato una mia vecchia conoscenza: un imprenditore televisivo che ora ha 82 anni e – complimenti a lui – non solo ha la moglie, ma anche l’amante, ed è un personaggio che difficilmente si trova in ambiti diversi da quello americano; un vero pirata dell’etere. E che è la figura che alle persone del convegno del pomeriggio spiegherebbe molto sul cosa sia successo nei territori a partire dalla fine degli anni ’70; perché si tratta di colui che ha impiantato sulla costa toscana le più significative televisioni locali e ha cominciato a costruire egemonia culturale per scopi puramente commerciali (cioè il calcio, il porno); possiamo dire che abbia rimesso in discussione consolidati bioritmi della città fabbrica fordista della fine degli anni ’70 con le trasmissioni porno alle due/all’una di notte che sconvolgevano l’abituale comportamento degli operai. Ecco, queste due figure che ho incontrato la mattina e il pomeriggio e la sera si sono sostanzialmente passate il testimone dell’egemonia culturale sui comportamenti del territorio – senza conoscersi e senza sapere nulla reciprocamente l’uno dell’altro. Mi sono ritrovato in una giornata ad essere l’involontario archeologo del passaggio di testimonianza di forme dell’egemonia culturale della codificazione dei comportamenti sulla società e soprattutto sul territorio. […] Il tema fondamentale di cui parlo oggi è appunto questo dell’egemonia: che cos’è, come si esercita politicamente nel complesso delle forme mediali quindi (come vedete dall’esempio che vi ho fatto precedentemente) è evidente una frattura storica nella formazione dell’esercizio dell’egemonia che coincide nei territori con il passaggio al post della società fordista. È evidente no? Questi tristi pedagogisti e questo fin troppo allegro imprenditore televisivo mostrano, hanno proprio il carattere di una potente discontinuità. Ovviamente il problema nostro è quello invece di ripensare queste tematiche nel senso di una potente continuità, e per far questo non posso che addentrarmi in temi assolutamente vintage, però molto utili ad inquadrare il problema. D’altronde dobbiamo considerare che il vintage è uno stile molto usato nei dibattiti politici ufficiali, per esempio si guardi alla campagna elettorale milanese che è ferma, si è bloccata e cristallizzata su dei fermo immagine degli anni ’70. Mi chiamo oltre questo punto di vista qui (oltre a registrare il dato da un punto di vista sociologico) rispetto al problema di capire però quali siano queste dinamiche, questi dibattiti vintage che ci aiutano a comprendere la formazione dell’egemonia contemporanea […] e in che modo questa egemonia comunicativa abbia poi una presa di potere politico – non solo sui territori ma anche sulla stessa società, mettendola a connessione.
Bondi e Freccero: come il mainstream pensa sé stesso
Ora per approfondire questa discussione mi porterò sul dibattito legato ad un testo particolarmente curioso – curioso per l’autore: probabilmente molti di voi sapranno che Sandro Bondi recentemente ha scritto un libro […] che si chiama “La cultura è libertà”. Ora, cosa c’è di interessante nel testo di Sandro Bondi? E soprattutto cosa c’è di interessante all’interno della recensione di questo testo per capire come il mainstream pensa sé stesso, e soprattutto per capire come a livelli mainstream sia pensato il concetto di egemonia? Ora non so se sapete, ma recentemente La7 ha dedicato una trasmissione al libro di Sandro Bondi, trasmissione che ovviamente mi sono visto e […] nella quale emergevano due posizioni differenti, cioè la posizione di Sandro Bondi e quella di Freccero. E qui siamo di fronte a due forme del berlusconismo cioè una forma originaria – cioè quella che ha permesso la rivoluzione conservatrice di Berlusconi – e poi invece la forma tarda – quella conservativa del potere politico o meglio quella conservativa di quel barocco politico che è sostanzialmente il PDL. Ora badate bene, da Bondi e da Freccero escono due concezioni dell’egemonia, del concetto di egemonia culturale (e quindi successivamente politica sulla società) che sono moneta comune del mainstream, che vanno sostanzialmente comprese. Ora innanzitutto l’egemonia per Bondi è una sola cosa, – cioè l’egemonia è sentita come predominio nei codici culturali e nei comportamenti collettivi, nelle istituzioni formative del sapere e nelle costruzioni di comportamento diffuso da parte del PCI. Per Sandro Bondi il concetto di egemonia in Italia si è esercitato sostanzialmente in questi termini: ovverosia come un predominio nella prescrizione di codici culturali di comportamento nei rami profondi e diffusi della società operati dal PCI per un cinquantennio. E quest’idea di egemonia è stata nei decenni passati metabolizzata a sinistra del PCI: l’idea che il concetto di egemonia fosse un concetto operativo del PCI nella forma togliattiana-berlingueriana – il colmo dell’orrore. Ora però è interessante vedere anche la posizione di Freccero. Che dice: “con tutta la simpatia che posso avere per Sandro Bondi […] l’egemonia oggi non si esercita più nelle forme che abbiamo conosciuto fino agli anni ’70. Non si esercita come una prescrizione di comportamenti e di codici culturali che parte da un punto (sostanzialmente una fonte politica) ma l’egemonia è talmente mediatizzata che la forma della cultura coincide con la forma mediale della rappresentazione. Quindi vediamo che il mainstream può essere riassunto nel modo con cui pensa l’egemonia – e quindi pensa sé stesso come presa di potere e di controllo profondo della società – in due modi. Uno collegato alle idee che esprime Bondi – cioè quest’idea archeologica di un concetto di egemonia collegato ai comportamenti del PCI – e l’altro quello di Freccero – per cui l’egemonia è invece un problema archeologico perché passa ormai attraverso canali di televisione generalista visto ancora come linguaggio generale della comunicazione – che non ha più niente a che vedere con un dibattito che sembra essere di retroguardia, cioè il dibattito sul concetto di egemonia. Senza commentare la fondatezza delle singole posizioni e prendendole come posizioni idealtipiche che ci spiegano il modo con il quale il mainstream pensa sé stesso, dobbiamo capire cosa è l’egemonia: e soprattutto a cosa ci serve questo concetto per spiegare le modalità con le quali le piattaforme comunicative esercitano potere sul resto del corpo sociale in maniera estremamente controversa, senza avere però una concezione ipodermica di questo genere di fenomeno.
L’egemonia per Gramsci…
Innanzitutto per sapere che cos’è l’egemonia bisogna tornare a Gramsci. […] Il che è un problema serio, perché liberare Gramsci dall’inquietante tradizione togliattiano-berlingueriana, e dall’incrostazione della storiografia ufficiale italiana che lo mette ancora assieme a due autentiche mummie della cultura nazionale come Croce e Gentile è un po’ difficile come operazione. Vi dirò di più: sono riuscito a rileggere con un minimo di serenità teorica Gramsci quando ho cominciato a leggerlo in inglese. […] Ovviamente gli inglesi non tengono conto delle forme retoriche degli anni ’20 e degli anni ’30 con le quali Gramsci si esprimeva e che per noi lettori italiani rimandano immediatamente a questo contesto culturale. Fortunatamente Gramsci con l’emergere del paradigma anche in Italia dei cultural studies è più facilmente leggibile, ed è possibile rientrare nello specifico della sua dimensione teorica senza dover andar a pescare non in traduzioni in lingua, ma soprattutto in traduzioni teoriche in lingua. In Gramsci, fatta questa premessa, il concetto di egemonia si dà sostanzialmente su due forme. La prima, come abbiamo visto mutuata dall’allucinazione di Sandro Bondi (senza andare sul carattere grottesco di quest’affermazione), come strategia del partito di lungo respiro in grado di conquistare e costruire tecnologie dell’emancipazione che incidano sulla morfologia della società, rovesciando l’egemonia delle classi dirigenti. È questo l’elemento che manca nel dibattito mainstream ed è questo anche l’elemento che manca nelle riletture di movimento (non dei cultural studies, che sono anche questioni anche disciplinari molto differenti), perché manca la questione che invece muove il focus dell’intero ragionamento gramsciano – ovverosia una riflessione sull’egemonia intesa come ideologia delle classi dirigenti. Però l’ideologia non è sistema di valori – atteggiamento fideistico di un ristretto gruppo di classe dirigente che vi si riconosce – ma l’egemonia è un’ideologia delle classi dirigenti efficace perché in grado di avere, disporre e sviluppare tecnologie di consenso in grado di incidere sulla morfologia profonda della società. Questo è il concetto di egemonia gramsciano. Quindi il problema dell’egemonia successivo, cioè quello del rovesciamento del concetto di egemonia delle classi dirigenti – e quindi un idea PCIista di egemonia – è successivo a questo ragionamento. Il problema gramsciano è quello di rovesciare l’idea di egemonia delle classi dirigenti, e su questo ci attestiamo. Per toccare il cuore del ragionamento di oggi […] dobbiamo andare ad un’altra discussione altrettanto vintage, per un motivo semplicissimo: perché gli esiti di questa discussione non sono stati ancora risolti se il problema diviene quello di rovesciare l’egemonia reale che le élite e le classe dirigenti hanno sul complesso della morfologia sociale.
…e nella polemica tra Vittorini e Togliatti
E quindi vi porterò […] in un dibattito che diviene cruciale per capire il problema che è classicissimo della cultura della sinistra italiana – però rimasto sepolto per tutta una serie di motivi legati anche all’itinerario che i movimenti culturalmente hanno preso dagli anni ’80 ad oggi: mi riferisco al dibattito tra Vittorini e Togliatti. Ora qualcuno chiaramente comincerà a fuggire perché dopo Gramsci, Vittorini e Togliatti manca Sereni, Zdanov, Secchia ed abbiamo fatto la formazione completa della Russia degli anni ’50; però dobbiamo renderci conto che senza un’analisi di questo genere di dibattito difficilmente riusciamo a comprendere il problema che riguarda l’egemonia. A sommi capi e facendo strame di una letteratura serissima che ha ricostruito filologicamente una serie di questioni su questo dibattito, qual’è in nuce la contraddizione che emerge attorno alla questione della rivista del Politecnico tra Togliatti e Vittorini? Storicamente per il modo con il quale è stato ereditata – prima dai gruppi della sinistra rivoluzionaria poi successivamente, nei decenni posteriori, in ciò che le culture del movimento hanno recepito – si tratta di un’articolazione su cosa? Sul rapporto tra intellettuali e partito – e in particolare sul problema fondamentale, quello della libertà dell’intellettuale rispetto al comportamento eventualmente autoritario del partito. Rispetto al tema dell’egemonia, alla problematica politica e strategica di capacità di incidere sull’egemonia operata dalle classi dirigenti, non è questo il terreno di battaglia tra Vittorini e Togliatti ma un altro, sul quale poi si gioca il rapporto tra intellettuali e partito. Il terreno di battaglia è tutto giocato sul problema delle forme di narrazione. […] Togliatti porta avanti un’idea di narrazione funzionale al concetto che il PCI (in questo senso in ottica profondamente zdanoviana) aveva delle forme narrative necessarie per radicarsi nella società. Infatti per Togliatti diviene centrale promuovere nella cultura italiana della seconda metà degli anni ’40 e poi successivamente negli anni ’50 la grande forma del romanzo popolare. Il vero scontro tra Vittorini e Togliatti è sulle forme del romanzo. Ma non perché si tratti di uno scontro fittizio, che poi riveste un altro scontro – quello tra intellettuale e partito. Perché il dibattito (se poi ci sarà l’occasione di ricostruirlo filologicamente) ha questo campo di battaglia sulle forme di narrazione. Intese come strumento mediale e comunicativo di costruzione dell’egemonia culturale, politica e di tessitura del legame sociale. E’ attorno a questo scontro che si gioca il rapporto tra intellettuale e partito, questo è vero, è attorno a questo campo di battaglia. Cosa voglio dire quando intendo che questo dibattito non è stato mai risolto? Innanzitutto per l’esito assolutamente divaricatorio, che è stato poi riprodotto anche nella nuova sinistra, del rapporto tra intellettuali e partito. Per cui c’era continuamente un reciproco sospetto – gli intellettuali chi sono (quando ci sono e se esistono ancora)? Sono coloro che definivano le forme della sperimentazione narrativa ma – come Togliatti accusava Vittorini – sono anche coloro che non sono in grado di utilizzare la grande forma narrativa del romanzo popolare e quindi di radicarsi nel profondo della società. E quindi non sono in grado di rovesciare l’egemonia delle classi dirigenti – questa è l’accusa che Togliatti fa a Vittorini. E Vittorini risponde: “No, solo nella capacità di sperimentazione dei linguaggi è possibile costruire una forma narrativa in grado di costruire egemonia e quindi rovesciare l’egemonia delle classi dirigenti.” Come vedete, tradotto dal vintage al digitale tutto ciò suona particolarmente contemporaneo.
La nuova forma generale della narrazione popolare
Innanzitutto, nella sua irrisolutezza tra organizzazione e libertà degli intellettuali, tra necessità della politica di un linguaggio popolare, non più narrativo, non più legato allo schema del romanzo romantico dell’800, e la necessità di sperimentare delle forme non solo di intellettualità ma anche di creatività artistica, questo punto di vista non è mai stato risolto, e anche se andiamo a vedere alcuni dibattiti della nuova sinistra degli anni ’70, diciamo che questo problema viene posto in termini caricaturali […]. Il punto qual’è? È che non è stato risolto questo problema, di fondo non siamo mai usciti da questo dilemma: se sia possibile rovesciare l’egemonia delle classi dirigenti attraverso una forma di narrazione popolare, se possibile farlo attraverso le forme della sperimentazione, se possibile farlo attraverso l’egemonia del partito, o se possibile farlo attraverso la libertà dell’intellettuale. Non solo non è mai stato risolto questo dilemma, ma soprattutto il campo ha radicalmente mutato i connotati. Questo è l’altro problema fondamentale perché noi ci troviamo in un dibattito sull’egemonia in termini gramsciani su un campo che invece è completamente cambiato. Non solo per i termini storiografici che conoscete tutti benissimo, ma soprattutto per un altro motivo. A un certo punto, a partire dalla metà degli anni ’70 la forma generale della narrazione popolare non è più il romanzo ma è la televisione. Questo è l’altro elemento che cambia completamente. E io parlavo recentemente […] con un quadro operaio, pensionato che ha un’ottantina d’anni […] che mi raccontava la sua esperienza di sabotaggio in fabbrica (che non ha niente da invidiare alle forme moderne della banlieue), e soprattutto mi raccontava una cosa molto importante: il ruolo che avevano i librai nelle fabbriche all’ora di uscita o all’ora di pausa. I librai si facevano letteralmente la pensione, lo stipendio, vendendo libri agli operai. Ci sono stati periodi anche nella prima metà degli anni ’70 dove qualsiasi libraio mobile poteva vendere libri di qualsiasi tipo agli operai. Improvvisamente quando la televisione (che c’era già) prende veramente piede come forma di linguaggio che rappresenta non solo l’immaginario ma anche il comportamento e il simbolico collettivo, questi librai cominciano a fallire. Questo è il punto. Tutto ciò sarebbe stato l’occasione per una revisione ancora più importante della precedente del dibattito tra Vittorini e Togliatti. La televisione cos’è? E’ una forma di narrazione in grado di rovesciare l’egemonia delle classi dirigenti, o no? E’ una forma della narrazione della quale dobbiamo riappropriarci, o no?
Liberarsi da Pasolini, rileggere McLuhan
A mio avviso tutto ciò non accade anche perché a sinistra (quella “ufficiale”) c’è un monolite che occupa questo genere di discussioni […]. Dobbiamo liberarci da Pasolini. E non solo per la frase che ci viene reiterata fino all’ossessione su Valle Giulia, che culturalmente aveva pagato, ma soprattutto per aver ostruito – nella sinistra ufficiale che non si è mai emancipata da questo tipo di problema – un vero e proprio delirio tecnofobico nei confronti della televisione. A sinistra, nella sinistra ufficiale, non si ripete un dibattito Vittorini-Togliatti per questa figura di Pasolini che è stato un grandissimo intellettuale […] ma con grandi ombre. Il punto è che nella sinistra di movimento a partire dalla metà degli anni ’70 il problema della televisione non esiste, si comincia a puntare sulle forme di comunicazione che sono eccedenti o innovative rispetto al mainstream, si comincia a puntare sulla radio, poi nei decenni successivi si comincia a puntare sulla rete (con gli aspetti controversi che conosciamo benissimo […]) però soprattutto si perde di vista il terreno dell’egemonia. Quindi noi dobbiamo stare attenti: siamo di fronte ad una sedimentazione decennale che non è solamente culturale ma che è soprattutto di comportamenti diffusi rispetto alla mancata capacità di centrare il tema della televisione generalista così come la conosciamo. E questo tema riguarda un potere di connessione che la televisione ha. […] Quale? È quello di costruire una narrazione già compiuta che abbia un potente impatto simbolico. […] Perché è così importante la televisione da questo punto di vista? […] Nella formazione dell’egemonia in senso gramsciano, nel senso di ideologia delle classi dirigenti che abbia capacità di costruirsi tecnologie della comunicazione che siano capaci di esercitare consenso e potere all’interno della società. Se questa è l’egemonia, se la televisione generalista ha questo potere, dobbiamo capire ed approfondire il problema di cui stiamo parlando. E di questo ne ha parlato, nonostante tutto, con grande lucidità proprio Marshall McLuhan; nella sua riflessione, “Cos’è la televisione?” McLuhan fa una riflessione molto interessante (soprattutto perché siamo alla fine delle società fordiste, cominciamo ad essere negli anni ’70) quando parla della televisione come un fenomeno di connessione sociale in grado di scomporre le relazioni sociali generate dal fordismo e ricomporre una dimensione di rapporti sociali attorno all’uso del mezzo televisivo tipicamente neotribale. Neotribale non è un’espressione del sottoscritto che si ricorda qualche lettura passata di Michel Maffesoli. È un’espressione letterale di McLuhan. […] Perché McLuhan utilizza il concetto di neotribale? Semplicemente per indicare come la televisione sia in grado di scomporre rapporti sociali profondi fin nell’intimo. E di scomporre anche i rapporti sociali profondi della civiltà fordista. Quindi siamo di fronte non ad uno strumento di alienazione […] ma siamo di fronte ad uno strumento che ha questa capacità antropologicamente radicale di connessione. E quando ci troviamo di fronte al problema dell’egemonia ci troviamo di fronte ad uno strumento che nell’ultimo trentennio è stato semplicemente aggirato. Si è sperato che le radio riuscissero a contrastare questo genere di egemonia, si è pensato che internet potesse essere in grado di farlo, e puntualmente le cose sono andate in un altro modo. Ora siccome non si tratta di fare guerre di religione, ma di comprendere ciò che sta accadendo, noi dobbiamo renderci conto che qualsiasi tipo di piattaforma mediale ha ancora oggi la forma tecnica, ma ancora di più iconico-simbolica della televisione come strumento in grado di connettere la società e di produrre un simbolico valido per tutti. Anche per coloro che la mettono in discussione […]
Il simbolico profondo delle società contemporanee ed il paradigma indiano
Da questo punto di vista, quando torniamo al dibattito sull’egemonia ripercorrendo la dimensione vintage di cui sopra, ci rendiamo conto che manchiamo di un dibattito antropologico mediale, ma anche un dibattito politico che difetta da un trentennio e che non ha saputo ripercorre (e soprattutto in termini genealogici) la questione aperta alla fine degli anni ’40 da Vittorini e dalla mummia di Togliatti. Da questo punto di vista dobbiamo renderci conto che quando parliamo di egemonia la intendiamo in maniera molto diversa da come la pensa il mainstream, ma soprattutto dobbiamo tornare al campo laddove effettivamente questa egemonia la si esercita. Cioè nel momento in cui – nella pluralità di piattaforme comunicative, ad alta complessità, conflittualità tra le piattaforme stesse, continue modificazioni tecniche e dell’uso – comunque il re, il sovrano, colui che ha capacità di connettere generalmente, è la televisione. Da questo punto di vista anche le forme di dissidenza, comunicativa, simbolica, tecnologica sono – come tutti i dissidenti – costrette a confrontarsi con chi invece è detentore del potere. Qui è estremamente importante riportarsi all’interno di questa dimensione. E qui cito un’ultima cosa […]. Ho trovato interessante un testo collettivo su cui sto lavorando […] che si chiama “Il Sociale e il Simbolico”, che è edito dalla Sage per il Centro di Ricerca Cooperativa delle Scienze Sociali di Pune in India del 2007 che è molto interessante e sul quale si riflette e si ritorna sul concetto di egemonia all’interno un campo che a noi dice molto, quello indiano. […] Dal punto di vista mediale l’India non è il laboratorio, ma il paradigma della comunicazione globale. Perché? Primo, vi è una fortissima compresenza di televisione generalista, televisioni satellitari, internet (non solo popolare, ma anche universitaria) e una fortissima tensione di culture orali popolari tradizionali – quindi c’è questa continua dimensione di conflitto tra le grandi faglie della comunicazione globale. Quella che conosciamo tutti, quella mediale, e anche quella tradizionale che fa sentire la sua forza. In questo l’India è anche un po’ il paradigma dei paesi che abbiamo riscoperto nei mesi precedenti, anche un po’ rompendoci la testa (“ma come, da una parte in Egitto c’è internet, dall’altra ci sono figure che sembrano più frutto di una letteratura coloniale?”). Cosa effettivamente sta succedendo? Ce lo spiega l’India. Fatte salve le differenze culturali e antropologiche, quello che accade in questi paesi si spiega molto bene con le dinamiche indiane, ovverosia un tessuto potente di relazioni sociali, una società nella quale si gioca un fortissimo livello di fusione tra una dimensione comunicativa e tecnologica ad alta complessità, una forte presenza delle televisioni generaliste, un immaginario cinematografico che tutti conosciamo, cioè Bollywood e poi la forza profonda del meccanismo anche televisivo Quindi quello che sta succedendo nei paesi di cui abbiamo parlato – cioè l’Egitto, la Siria e lo stesso Yemen – si spiega molto sul paradigma indiano. Ora cosa ci dicono questi indiani estremamente interessanti e molto a conoscenza del concetto di egemonia (che hanno ripreso dal dibattito inglese) […]? Di stare attenti ad una questione fondamentale: ciò che è connettivo nelle società contemporanee non è il media, e non è un media sull’altro ma è il media che ha capacità di determinare il simbolico profondo delle società contemporanee. In India non è la televisione l’elemento vincente, specie in intere zone dove ci sono milioni di persone per le quali la televisione è secondaria rispetto alla forza orale delle tradizioni, però in Italia questa dimensione del simbolico […] è ancora determinata dalla forma antropologica della televisione generalista anche per quanto riguarda i linguaggi delle televisioni satellitari e tutte le forme che sono venute successivamente sono forme che comunque si sono dovute adattare a questo potere.
Conclusioni
Chiudendo, cosa si può dire? Prima di tutto è evidente: “Hic Rhodus Hic Salta”. Si pone il problema di rompere questo tipo di egemonia. Che non è un’egemonia squisitamente culturale, è l’egemonia politica delle classi dirigenti di questo paese. In questo senso dobbiamo leggerla veramente in senso gramsciano: ma non nel senso di una tradizione togliattiana ripresa in termini allucinati da Sandro Bondi […] Dobbiamo riprenderlo dal punto di vista della capacità di comprensione di come le classi dirigenti costruiscano effettivamente il loro potere. In alcune discussioni con intellettuali di centrodestra […] ho detto una frase di cui sono convinto: “Voi non vi rendete conto di qual’è la vera natura del vostro potere, non ne avete idea.” Noi invece sappiamo che la natura del loro potere, la natura della loro reale egemonia, quella con il tempo costruita da Freccero, sta nella capacità di presidiare questa dimensione del simbolico profondo delle società grazie al linguaggio della televisione generalista. […] Qualsiasi eccezione rispetto a questo schema, qualsiasi novità, qualsiasi sperimentazione se non è in grado di incrinare questo paradigma è destinata a sopravvivere nello spazio di una stagione. E basta vedere la vita dei movimenti degli ultimi vent’anni per avere una risposta veramente quasi in termini apodittici. Perché tutti questi movimenti lavorando in termini generosi, interessanti di sperimentazione, di eccedenza, di decostruzione delle forme di comunicazione ed anche di nuove forme di conflitto […] non sono mai riusciti a scalfire questo paradigma. Ma è soprattutto perché non l’hanno mai pensato. Come non è riuscita a pensarlo la sinistra istituzionale non sono riusciti a pensarlo i movimenti. E soprattutto non sono riusciti ad incidere nel cuore di questo problema. Questo è il punto fondamentale. […] Si tratta di riprendere […] il dibattito tra Vittorini e Togliatti però riformulandolo in questi termini per riportarci sul problema fondamentale: uno, le modalità di formazione dell’egemonia delle classi dirigenti, che vanno oltre la contingenza del politico. Due, le modalità del rovesciamento. Attenzione però: […] l’uso del concetto di egemonia ha una profonda controindicazione teorica della quale i movimenti si erano accorti. Cioè che nel momento in cui l’egemonia si dà come lento sedimentamento nella società, molto spesso colui che cerca di creare l’egemonia (quando poi l’egemonia quella vera, delle classi dirigenti, è forte) finisce per somigliare a colui che cerca di colonizzare, ed è quello che è accaduto al PCI: quindi invero dei problemi teorici ci sono. […] Siamo di fronte ad una serie di problemi molto seri, e di grande portata teorica: però senza tornare a questo fuoco di problemi noi ci ritroveremo tra vent’anni all’interno del consueto cerchio magico. Quello di sapere interpretare tutta una serie di movimenti che hanno prodotto nei vent’anni successivi una serie di questioni interessanti, eccedenze, ecc.. che però hanno tutti perso. E qui finisco. C’è una vignetta di Vauro […] fatta ai tempi della Pantera del 1990. C’è scritto: vent’anni dopo – 2010 (quindi un anno fa, dal nostro punto di vista), e si vede il giovane studente della Pantera che con un viaggio nel tempo intervista uno studente del 2010 (quindi un vostro contemporaneo) e questo è vestito da marziano con le antenne, e gli sta facendo capire che lo studente del 2010 ha gli stessi problemi dello studente del 1990 (solo che la vignetta è del 1990, non del 2010). Questo per dire che, già 20 anni fa, si intuiva che c’era un cul-de-sac nel quale saremmo facilmente entrati, e soprattutto da cui non saremmo mai usciti. Ecco, io non spero che qualcuno tra vent’anni dica – ma io una volta sono passato a Bologna…e si parlava di questi problemi!
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