Continuiamo con la trascrizione dell’intervento di Carlo Fomenti ai seminari di Not[Net]Working – La rete non è un media , che hanno avuto luogo a Maggio nella facoltà di lettere e filosfia di Bologna. In questa seconda parte si parla della creazione di soggettività politiche nelle società mediali. Buona lettura.
IFF: La seconda riflessione che vorremmo porti è relativa al rapporto tra creazione di soggettività politica e strumenti di comunicazione nelle società mediali.
Recentemente abbiamo avuto la possibilità di seguire in proposito dei seminari tenuti da Silvano Cacciari da cui sono emerse considerazioni interessanti che vanno ad intersecarsi anche con l’ambito dei network digitali.
Il linguaggio della politica in epoca moderna, tende a rappresentare il soggetto come un soggetto emancipatorio, come elemento storico gravato di un portato di libertà.
Guardando a tempi, che da un punto di vista storico sono senz’altro recenti, lo stesso operaismo italiano, se da una parte trova il suo snodo teorico fondamentale nella capacità di individuare i punti più alti della produzione capitalista e quindi nell’individuazione della soggettività in grado di farne esplodere le contraddizioni, da un altro ( almeno nella sua prima versione che possiamo individuare in un periodo compreso fra gli anni ’50 ed i primi anni ’70 ) tenta anche di individuare le capacità comunicative di questo soggetto.
Se pensiamo per esempio alle canzoni popolari degli anni 50 e 60, possiamo ritrovare in esse un medium capace di svolgere differenti funzioni.
Da una parte esse sono una narrazione epica dello sciopero selvaggio, una lode ai suoi effetti liberatori, e quindi una rappresentazione di un immaginario di contrapposizione in grado di connettere e far parlare lo stesso linguaggio a milioni di persone mentre da un altra esse rappresentano un veicolo di trasmissione del know how di come si fa effettivamente gatto selvaggio.
In questo caso ci trovavamo di fronte a strumenti mediali, che per quanto oggi possano essere considerati giustamente rudimentali rispetto al contesto attuale, avevano la capacità di veicolare legame sociale e comportamenti antropologici, individuando capacità comunicative che erano in grado fare società, strumenti comunicativi in nessun modo subordinati a quelli capitalisti.
Questa dinamica viene a mancare in Italia già dalla seconda metà degli anni ’70, spostando il luogo del dibattito pubblico e della vettorialità dei comportamenti sull’ambito televisivo, per tutta una serie di motivi su cui non ci vorremmo soffermare.
Ci interessa invece molto di più inquadrare il contesto attuale dove la creazione di soggettività politiche si trova a dover affrontare immediatamente un nodo non di secondo piano, ovvero quello per cui è difficile comprendere dove andare a creare soggettività emancipatorie nelle società in cui i media esistono principalmente come strumento tecnologico diffuso nella creazione di soggettività, mettendole a valore.
Ci sembra che l’idea di eludere tale sistema non porti, e non abbia portato negli ultimi anni a nessun tipo di strada percorribile sul lungo periodo.
Parliamo di impossibilità di elusione, non perché vediamo effettivamente delle possibilità immediate su cui investire, ma perché crediamo che un gioco in termini di sottrazione relativamente al dato di fatto che questi network rappresentano non sia una carta valida da giocare per due ordini di motivi.
Il primo è che limitarsi semplicemente a denunciare le problematicità dei social network non aggiunge nulla al discorso e lascia in mano l’egemonia culturale a chi li sa sfruttare.
Il secondo è dato dal fatto che essi intercorrono ed intercorreranno in modo sempre maggiore e palpabile qualsiasi interstizio della società mediale.
Essendo che tu hai ultimato, o stai ultimando, una ricerca relativamente a FaceBook, vorrei sapere da te se i social network commerciali si prestano, e se si in che modo a questo campo di sperimentazione, ovvero se sono cornici adatte per sperimentazioni politiche in grado di creare un legame sociale che non venga semplicemente calato dall’alto ma che sia capace di produrre pratiche liberatorie.
È una domanda che ci rendiamo conto possa suonare retorica, nel senso che abbiamo visto, come i social network fondino la loro potenza economica proprio sulla creazione di fiducia, che è un elemento fondamentale per poter dar vita a qualsiasi società.
Il senso della domanda crediamo possa emergere in modo più chiaro nel momento in cui riusciamo immediatamente a metterne in atto una problematizzazione che calchi diversi fronti.
Tutto il paradigma negropontiano dell’essere digitali, dell’armonizzazione delle comunicazioni e della possibilità di far pesare la propria opinione nelle questioni politiche, di partecipare e di mettere in atto forme di organizzazione grazie agli strumenti digitali, è stato sconvolto da quella che è stata l’evoluzione della rete.
Anzi a tratti sembra di assistere ad una forte polarizzazione delle posizioni nella "virtual life": pensiamo all’esperienza olandese portata da Geert Lovink in “Zero Comments”. In Olanda dopo l’uccisione del regista T.van Gogh si è assistito all’emergere nella blogosfera di una vera e propria spirale d’odio e di xenofobia nei confronti del mondo musulmano e dei migranti dei Paesi Bassi.
Più in generale i social network, sono stati accusati di essere portatori di diverse forme di appiattimento culturale, anche a causa delle forme di voyerismo attivo e passivo che su di esse si sono andate a sviluppare negli anni determinando la riproduzione "micro" dei peggiori modelli culturali "macro" preesistenti.
Per ciò che riguarda la specifica situazione italiana essi hanno dato vita a forme di populismo grillesco, che sotto certi punti di vista e per quelle che sono state le loro massime forme di espressività in termini di proposta, immaginario e di organizzazione politica rappresentano a nostro parere uno dei peggiori frutti della cultura di rete che fra l’altro si accompagnano ad una visione entusiastica della e-democracy vecchia di almeno 15 anni e per nulla critica su quelle che sono le effettive possibilità e limiti della partecipazione in rete ( il che non significa che il fenomeno Grillo non sia interessante e non vada analizzato a fondo ).
Altro problema ancora è quello che tu stesso hai riportato, sottolineando come la creazione di legami sociali e di comunità sia in qualche modo sovra-determinato dall’apparato software che oltre ad influire sulla veicolazione e sulla direzione del flusso comunicativo influisce anche sulla stessa formazione dei contenuti.
E questo senza dimenticare che la rete non è in nessun modo un’infrastruttura caotica, ma rappresenta un dispiegamento di rapporti di forza sia in termini di capitale reputazionale accumulato dai soggetti che la vivono, sia per ciò che riguarda le capacità tecnologiche di altri soggetti di essere accumulatori e aggregatori di potenza informazionale, sia perché cominciano a presentarsi in modo sempre più diffuso casi di censura.
Non ultimo esiste un problema che potremmo chiamare del "trend" che da sempre attraversa questi social network: magari si passano 6 mesi a capire come effettuare uno sfondamento lingustico e semiotico all’interno di una piattaforma e quando lo si è capito essa è passata di moda e pertanto ha perso completamente qualsiasi valore rappresentativo e aggregativo.
Infine queste forme di partecipazione presentano altri nodi problematici laddove non hanno la capacità di creare miti fondativi, alcuni direbbero pratiche costituenti, noi preferiamo usare il termine ordini simbolici ovvero insiemi di segni, capaci di creare codici che siano al tempo stesso strumenti comunicativi e di pratica politica.
Intendiamoci: stiamo tentando di porre la questione nel modo meno ideologico possibile, nel senso che pur provando una sorta di senso di lontananza da determinati ambienti, non possiamo che rilevare il fatto che si tratti di ambienti di massa, all’interno dei quali è necessario essere presenti per provare a cavalcare i linguaggi mediali che in essi si creano e che creano egemonia, anche in senso gramsciano, cioè che hanno la capacità di creare senso e parole d’ordine anche al di fuori di nicchie ristrette ma per l’intera società.
Formenti: Se andiamo a rileggere la storia degli ultimi decenni, anche quella dei media broadcast precedente alla rete, vediamo che è sempre stata una storia di rincorsa tra guardie e ladri. L’innovazione linguistica è sempre arrivata dalle avanguardie contro-culturali ( artistiche, politiche, sociali ) e da minoranze che sperimentavano tecnologie, piattaforme, ambienti e tecniche. Puntualmente questa creatività, con tempi differenti ed in contesti differenti, viene appropriata e trasformata in macchina per la produzione di profitto o in macchina di controllo politico.
Pensiamo all’esperienza di ad-busters, fondata sul sabotaggio ed il detournement dei cartelloni pubblicitari, per cui si effettua una sorta di dirottamento semiotico del messaggio attraverso il rovesciamento del significato che viene reso ambiguo ( una pratica che ripropone le tecniche di alcune avanguardie artistiche tra le due guerre mondiali ). Questo è un meccanismo che ha prodotto un’innovazione linguistica straordinaria per i comunicatori professionali e più in generale per le imprese che fanno comunicazione come merce e che ne traggono profitto.
Una notevole quantità di video caricati su YouTube sono spot parodizzati o remixati in modo da ottenere degli effetti di rovesciamento del significato. Contestazione? Forse, ma la Volkswagen, di fronte ad uno spot che prende in giro il messaggio pubblicitario che promuove un suo modello, può pensare: «In fondo perché no? Magari riesco a vendere anche qualche macchina di più!». Esiste sempre questo effetto collaterale. Ma soprattutto esiste un meccanismo scientifico di appropriazione e sfruttamento dei linguaggi e della creatività della comunicazione antagonista e conflittuale.
È risaputo che i blog così come le pagine su Facebook sono nella stragrande maggioranza dei casi dei mini reality show televisivi dove la gente riproduce esattamente gli stessi modelli culturali che apprende dalla cultura dei media broadcast. Questo significa che bisogna restarne fuori? Ovviamente no. Il problema è se e come costruisci un meccanismo di egemonia, cioè se e come delle culture politiche che hanno un progetto e vogliono trasformare questi luoghi "virtuali" in terreno di confronto e di lotta politica, possano arrivare a produrre degli effetti egemonici.
Qui non c’è una risposta semplice. Una delle cose che abbiamo imparato dai "Cultural Studies" è per esempio la modalità con cui le donne si appropriano delle soap opera adattandole alle esperienze e ai conflitti che vivevano quotidianamente, fino a trasformare queste eroine, risibili dal punto di una critica culturale sofisticata, in icone dei conflitto all’interno della famiglia o della società.
Quindi vedete che c’è sempre una possibilità di esercitare quella che Eco chiama "decodificazione aberrante" della comunicazione egemone. Questo di per sé, come dicevamo prima, non è affatto antagonista, ma è pur sempre un terreno sul quale chi fa comunicazione antagonista può lavorare.
Il problema dell’egemonia però ci fa spostare ancora a monte della questione, per chiederci dove si materializzano i problemi del soggetto e dell’organizzazione, parole di cui abbiamo detto malissimo nei decenni scorsi ma di cui non riusciamo a liberarci.
Chi sono i soggetti attorno a cui si può aggregare un progetto di egemonia politico-culturale? E che tipo di organizzazione possono e devono organizzare questi soggetti per intraprendere un progetto egemonico?
Il discorso è assolutamente aperto, visto che tutta la tradizione storica della sinistra è andata in pezzi. Sicuramente non è recuperabile il concetto di partito, almeno nella sue forme più tradizionali e forse nemmeno nelle varie mutazioni che ha subito nel corso della tragica parabola dei movimenti negli anni ’60 e ’70. D’altro canto però non funzionano nemmeno la non-organizzazione o il discorso neo-anarchico della sinistra radicale americana, che propone il modello orizzontale e federativo di una galassia di soggetti che dovrebbero aggregarsi fino a dare vita magicamente a un progetto di egemonia. Questo non succede mai, tuttalpiù si generano delle insorgenze come quella di Seattle che ci ha offerto uno straordinario esempio della potenzialità di aggregazione della rete.
Genova 2001 è stato invece un evento tragico che ha tagliato le gambe ad un’intera generazione di movimento italiano, convincendo migliaia di persone che era meglio starsene a casa e lasciar perdere. Al tempo stesso, l’evento di Genova, dal punto di vista delle nuove tecnologie di comunicazione, ha prodotto a sua volta un’insorgenza straordinaria: la presenza di migliaia di telecamere, fotocamere, telefonini e "occhi elettronici" sul territorio ha consentito una produzione formidabile di materiale in grado di svelare cosa era realmente accaduto, al di la di tutte le bugie dei media.
Io, che allora non ero già più un redattore interno del Corriere della Sera, ma che in qualità di collaboratore ho vuto modo di parlare con i colleghi che erano stati inviati sul posto, ricordo che nei primi giorni successivi agli eventi molti articoli riportavano versioni abbastanza fedeli dei fatti descrivendo lo sconvolgente livello di violenza praticato dalle istituzioni in quella circostanza. Il tutto poi fu rapidamente "normalizzato" . Però il materiale prodotto durante quei giorni ancora lì in rete, liberamente fruibile, esiste una documentazione storica straordinaria in grado di ricostruire tutte le responsabilità.
Voglio dire che esistono comunque delle dinamiche dirompenti all’interno di questi processi ma che allo stesso tempo non abbiamo tutt’oggi l’intelligenza di immaginare come queste capacità possano essere organizzate e costituite in soggetto, sia pure un soggetto plurimo, plurale ed articolato che tiene conto di tutte le differenze.
Questa è la sfida fondamentale di fronte al quale non abbiamo attualmente risposte. Se guardate i cicli dei movimenti post ’77 vedete che sono tutti caratterizzati da un’insorgenza, un culmine e poi spariscono senza sedimentare nulla in termini organizzativi, di memoria storica, di tradizioni, di linguaggi quasi come se fossero dei brevi cicli di moda. Questo è un fatto veramente tragico nel senso che sono convinto che abbia ragione Aronowitz ( un sociologo della new-left americana ) quando dice che non può esistere un soggetto rivoluzionario "in sé", che sia solo "oggettivamente" tale. Questo mi sembra ampiamente dimostrato dal fatto che le fasi storiche di crisi , di immiserimento sociale, di disperazione creano sempre situazioni di riflusso che vede vittorie della destra e la demoralizzazione delle capacità di lotta delle masse. E’ sempre stato nei punti alti del ciclo capitalistico che si sono organizzate le forze dei subordinati per strappare una quota di reddito, per costruire la propria coscienza e la capacità di lotta. Quindi non c’è nessuna oggettività.
Esiste invece un soggetto se esistono delle storie che lo narrano e se esiste qualcuno che le racconta, che ne memorizza i progressi, che ne costruisce i simboli, le icone ed anche i miti, perché senza mitologia i movimenti non vanno avanti. Insomma c’è bisogno di una cristallizzazione del linguaggio, condivisa e trasmessa tra le generazioni. Oggi questa memoria storica sembra completamente sparita anche a causa di un appiattimento verso il presente prodotto dagli stessi media, dall’organizzazione del lavoro, dalla precarietà, dall’orizzonte del rischio che ti fa ragionare sul tempo breve. A fronte di tutto questo allora il problema dei problemi è la costruzione di organizzazione per la lotta attraverso la quale giungere alla costruzione di soggettività che abbia un minimo di continuità.
IFF: Ci sembra che stia emergendo uno dei punti che hai maggiormente affrontato nella tua produzione saggistica che è quello delle nuove forme di lavoro post-fordiste ed il conseguente problema del lavoratore della conoscenza come soggetto.
Nella prima parte di "Cyber Soviet" ti districhi nel confronto tra le diverse teorie che individuano nel network un paradigma socio economico e che affrontano anch’esse da differenti prospettive la problematica delle nuove forme di lavoro e della nuova possibili forme di ricomposizione di classe, passando da ipotesi che la negano completamente (come l’individualismo di Castells) , alle teorie neo marxiste di Florida e McKenzie fino ad approdare alle sponde del concetto negriano di moltitudine.
Mi sembra che un problema che fai emergere in modo abbastanza evidente rispetto a tutte queste teorie, un punto comune che esse hanno è che difettano tutte di una “identità progettuale”.
Cerchiamo di spiegarci meglio.
Castells ipotizza la dissoluzione delle classi sociali in quello che tu, nel saggio “Composizione di classe, tecnologie di rete e post democrazia” chiami magma delle individualità in rete ( ed in questo senso sembra molto simile alla lettura della composizione sociale post -fordista che danno Negri ed Hardt in "Impero" ).
Il problema invece presente nella lettura della classe creativa di Florida è che la classe non si percepisce come tale, non si auto – organizza e viene frammentata dall’individualismo.
Problema diverso è invece quello delle teorizzazione ( un po’ fuori tempo massimo a dire la verità ) di McKenzie, nel senso che quella che lui chiama “classe hacker” si produce in se identificando i propri interessi, ma non si produce per se, confondendoli con quelli di altre classi, in particolar modo con quelli del capitale vettoriale che le si contrappone.
Negri invece nell’analisi sviluppata in "Impero" date l’impossibilità di trovare una composizione sociale universalistica ( come la classe operaia per intenderci ) e dato lo sviluppo di una molteplicità di identità locali e transnazionali in contrapposizione ai processi di globalizzazione utilizza la categoria di moltitudine al posto di quella di classe nel tentativo di dare forma e connotati “antagonisti” a una miriade di soggetti, non riuscendo però in questo modo a dar loro un ordine simbolico, quindi una rappresentazione che sia capace di creare dei link tra questi soggetti e di gettare le fondamenta per una pratica politica comune.
Il punto è in ogni caso lo stesso: non ci sono in questo momento le basi per una ricomposizione di classe.
Formenti:Assolutamente si. La mancanza del simbolico è uno dei problemi principali. Quando io ero militante negli anni ’70 vedere le bandiere rosse era qualcosa capace di metterti i brividi addosso, perché per noi quelli erano simboli viventi di un’aggregazione comunitaria che si riconosceva in storie, tradizioni e valori, che ti faceva sentire una persona sola anche se in piazza eravamo in 100000. Questo sentore andava oltre la singola manifestazione, era presente anche nel momento in cui ciascuno si trovava a confrontarsi con la sua incarnazione di potere. Oggi al contrario proprio in questo ambito ( davanti a chi non rinnova un contratto o ad un docente universitario che ha il potere di decidere il destino di uno studente ) ti trovi ad essere solo ed individualizzato. È per questo motivo che a me non convince per nulla il discorso di Castells sul "Networked individualism": la proposta di creare comunità a partire dalle nostre idiosincrasie ed affinità individuali che cosa ci permette effettivamente di costruire? Io non sono riuscito a darmi molte risposte utili e lo vedo purtroppo come un metodo per dar vita a quelle comunità di fan di cui parlava Jenkins, che al massimo riescono a convincere i produttori de "Il Signore degli anelli" a non cambiare il regista per il terzo episodio della saga.
Il problema fondamentale è che invece il processo di individualizzazione è andato talmente avanti negli ultimi 30-40 anni, che non si riesce più ad avere un orizzonte condiviso di senso a fronte di un evidente vuoto di produzione simbolica. È chiaro che questo stallo non si supera mettendosi a tavolino ma richiederà un lavoro assai lungo ed impegnativo di ricostruzione di un puzzle a partire dai frammenti di identità collettive che vanno ricostituendosi in diversi contesti. Se però l’obbiettivo massimo che riusciamo a darci è quello di trovarsi ad una manifestazione contro il G8, tutto questo non funzionerà perché andrà emergendo la mancanza di continuità organizzativa data per esempio dai luoghi. Io trovo che sia stato un grave errore il fatto che siano stati progressivamente espropriati in vari modi tutta una serie di luoghi ( e qui parlo proprio di territorio fisico e non di rete ) che erano di aggregazione sociale: o perché sgomberati o perché trasformati da Centri Sociali a fabbriche per la produzione di merci più o meno "alternative".
Proprio i luoghi sono stati oggetto di un terrificante processo di espropriazione e che io come docente universitario riesco a vedere da un punto di vista abbastanza privilegiato.
Lecce ha 90000 abitanti di cui circa 40000 sono studenti molti dei quali provenienti dal Salento. Sono tutti soggetti che non hanno più la "socialità del villaggio" che è stata destrutturata in vario modo attraverso processi di frammentazione della vecchia cultura familistica meridionale: la famiglia regge ma esclusivamente come struttura di welfare alternativo in un contesto che non prevede in nessun modo possibilità lavorative concrete se non in età avanzata ( e questo, come immagino capiate, determina tutta una serie di gravi tensioni e conflitti).
All’interno dell’università non esiste alcuna forma di socialità. Al massimo la socialità si sviluppa nei luoghi di consumo ed è quindi facile capire come essa venga sostituita dai gruppi su Facebook. Nonostante questo la rabbia è palpabile ma è difficile capire come canalizzarla. Nella mia vecchia esperienza di militante era tutto più facile : esisteva la fabbrica e tutto quello che dovevamo fare era convincere chi la viveva quotidianamente che le nostre prospettive politiche erano migliori di quelle del movimento operaio tradizionale.
Oggi questi luoghi non esistono più. Credo che quello che Karl Heinz Roth definisce "classe operaia mondiale" sia un sogno poiché i soggetti che dovrebbero farne parte non hanno nulla che li tenga insieme: né il reddito, né l’identità regionale, né la cultura, né gli interessi, né il genere, né l’età. Non esiste più una trasversalità simbolica ( che era data dalla storia e dai simboli del movimento operaio ) in grado di tenere insieme questi soggetti. La rete può sostituirla? No, è solo un ambiente, un luogo, un canale su cui si può lavorare ma solo a partire da un progetto, da una cultura e da precisi obiettivi comuni.
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