Socializzazione della Finanza e Crisi Economica Globale – Intervento di Raffaele Sciortino


Dopo la pubblicazione del dialogo con Carlo Formenti (qui la prima
e la seconda
parte), continuiamo a proporvi le trascrizioni rivedute, corrette e
ampliate di Not
[Net] Working
, il ciclo di seminari autogestiti da noi curato assieme al Collettivo Universitario Autonomo
presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna
la scorsa primavera. Con "Socializzazione della Finanza e Crisi
Economica Globale" abbiamo voluto ampliare il discorso rispetto
ai nostri consueti ambiti di ricerca, problematizzando il paradigma della produzione di valore in rete – sia nella sua accezione infrastrutturale
che in quella organizzativa e relazionale – e legandolo al quadro dei mutamenti geopolitici e geoeconomici contemporanei.

Lo abbiamo fatto ricostruendo la genealogia
dell’attuale crisi capitalista: sia dal suo versante informatico e
finanziario (angolature insospettabilmente legate, almeno per noi al
momento in cui abbiamo avviato la nostra ricerca!) di cui vi
parleremo la prossima volta, che dal versante macroeconomico, che ha
visto protagonista Raffaele Sciortino (ricercatore all’Università
Statale di Milano e redattore di Infoaut), di cui potete gustare l’intervento qui sotto.

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Ripercorreremo la storia
delle condizioni, principalmente quelle “geopolitiche”, che dagli
anni ’70 in poi hanno di fatto permesso che l’economia mondiale si
regga sul debito – o meglio sulla creazione continua di circuiti di
credito-debito che ormai si intrecciano e coprono tutto il globo – e
che quindi mostrano come non solo non si possa tornare indietro, ma
anche come sia assurdo pensare oggi di distinguere tra economia
cosiddetta "reale" ed economia finanziaria in quanto
speculativa – un’escrescenza che si potrebbe, se non tagliare,
almeno in qualche modo regolamentare.

IL QUADRO: INDEBITAMENTO
E "TOXIC ASSET" NEGLI USA

La goccia che ha fatto
traboccare il vaso, lo sgonfiamento della bolla dei mutui subprime, è
partita dalla tarda primavera-estate 2007, due anni fa. Per inciso,
trattandosi di mutui sulla casa a tasso variabile erogati perfino a
chi non presentasse i requisiti minimi per ripagarli, e scattando la
loro prima rata proprio dopo il secondo anno, la loro insolvenza
potrebbe produrre ulteriori ripercussioni negative a breve. Come in
una piramide finanziaria rovesciata che regge sul vertice, dallo
sgonfiamento della bolla dei mutui subprime, relativamente piccola
rispetto alla massa di valori cartacei e titoli sulla ricchezza
futura (una "polizza sulla vita futura", sulla produzione
della gente che non verrà mai ripagata) parte una dinamica di credit
crunch: le banche iniziano a registrare perdite, e si innescano da
parte loro sfiducia e reticenza nell’erogazione di credito, che anzi
tentano di recuperare. Da qui si passa al crollo dei prezzi di case
ed azioni, poi ad un ulteriore crollo dei valori immobiliari fino ad
arrivare alla cosiddetta "economia reale". Crollano – o
comunque subiscono un grosso colpo – prima il commercio mondiale e la
produzione manifatturiera in senso lato, poi quella di conoscenza ed
i consumi: inizialmente ciò accade negli USA per poi estendersi al
resto del mondo.

Nonostante si dibatta
oggi sul se si sia toccato il fondo (e se quindi non ci si possa che
riprendere), il problema è un altro: è che il sistema bancario e
finanziario mondiale, ma soprattutto quello statunitense, è
insolvente, ha una marea di debiti. Cosa ha fatto la Federal Reserve,
la banca centrale americana per coprirli? Ha immesso liquidità,
"stampato" una quantità di denaro quasi pari al PIL USA di
un anno, mentre l’amministrazione Obama ha effettuato valutazioni
sulla tenuta delle maggiori 19 banche statunitensi (di copertura pari
al 70% del settore) in base alla loro capitalizzazione: i cosiddetti
"stress test". Economisti sia liberal che conservatori
sostengono che questi test non siano seri e che coprano l’insolvenza
di fatto delle banche. Ancora più preoccupante è il fatto che Wall
Street tenga ancora in mano le redini del potere, e l’amministrazione
Obama non riesca ad effettuare una vera ri-regolazione: Wall Street
sta infatti semplicemente cambiando i parametri formali della
contabilità. Se ad esempio una banca ha degli asset (riguardo cui
non si parla più di Toxic Assets ma di Legacy Assets, asset
"lasciati in eredità"), cambiando i criteri di contabilità
si riesce a far apparire come non in perdita qualcosa che invece di
fatto non vale più niente.

Il Piano Geithner della
scorsa primavera affiancato a questi stress test – cioè il
"bail-out", il salvataggio delle banche – è in
perfettissima continuità con il piano Paulson della precedente
amministrazione Bush:

http://www.infoaut.org/articolo/la-prima-crisi-veramente-globale

http://www.infoaut.org/articolo/usa-bush-prega-il-congresso-di-approvare-il-piano-di-salvataggio

http://www.infoaut.org/articolo/crisi-globale-fase-ii-obama-e-la-cina/

e serve come una sorta di
escamotage tecnico per non chiedere più soldi al Congresso e non far
insorgere il contribuente. Nei fatti però è proprio quest’ultimo
(che definiremo meglio più avanti) a sovrapagare gli asset senza
valore.

Riepilogando:
l’indebitamento statale degli USA sta salendo vertiginosamente perché
essi stampano moneta, immettono liquidità, e lanciano piani di
salvataggio. Anche l’Unione Europea si trova in difficoltà.
Nonostante l’iniziale ottimismo rispetto alla crisi da parte della
Germania, forte della propria manifattura, i problemi nel sistema
bancario tedesco – e quindi europeo complessivo – restano; per non
dire di quelli della Gran Bretagna, dell’Islanda e dell’Europa
dell’Est (in quest’ultimo caso, fallimenti generalizzati andrebbero a
colpire le posizioni di San Paolo e Unicredito). Le elite non sanno
come reimpostare un modello di crescita. Ammesso che ciò sia
possibile, non si tratterà di un processo indolore. L’establishment
finanziario e bancario non vuole svalutare più di tanto i propri
asset, perché ha capito che può manovrare anche Obama, che la UE ha
problemi di leadership centralizzata e che se la Cina non finanziasse
gli Stati Uniti questi non le comprerebbero le merci, ed essa non
potrebbe mantenere livelli di crescita nell’ordine del 9-10% annuo –
per noi pazzeschi, ma per essa minimi necessari per assorbire i 7-800
milioni di contadini migranti nelle città cinesi che altrimenti
significherebbero gravi ripercussioni sociali per il paese,
nell’immediato. La Cina a sua volta alza la voce e dice agli Stati
Uniti: state vivendo oltre i vostri limiti, dobbiamo pensare insieme
ad una moneta mondiale, che non sia il dollaro. Ma non può
nell’immediato cambiare modello di sviluppo, basato sull’export. La
Cina pensava che gli USA potessero tenere maggiormente la situazione
sotto controllo: la sua strategia dai tempi di Deng era: noi
cresciamo pacificamente, "nascondendoci" e poi emergeremo.
Ma nel frattempo, e paradossalmente, la Cina per rafforzarsi ha avuto
bisogno di mantenere la cooperazione con l’occidente, pagandola col
valore prodotto dai propri lavoratori e lavoratrici.

Secondo riepilogo:
l’attuale sistema di crescita legato al debito statunitense e, a
cascata, a circuiti deficitari complessivi non regge, è instabile
per natura. Può ricreare un po’ di crescita ma deve farlo ricreando
un’altra bolla (e non a caso si parla infatti di green economy).
L’establishment finanziario statunitense, e non solo, non ha
intenzione di svalutare perché ha capito di avere ancora le leve del
potere in mano. Mantiene titoli cartacei che non valgono più niente,
aspettando che gli stati glieli paghino e se li deve veramente
liquidare aspetta di poterli scaricare su soggetti come il
contribuente statunitense, e più in genere su chi lavora e chi aveva
immesso la prospettiva del proprio futuro e la propria riproduzione
sociale sui mercati finanziari. Una presa di coscienza e percezione
di sé dei ceti medi, già toccati dalle truffe di Enron e Parmalat,
e che negli USA stanno vedendo evaporare le proprie pensioni
(dinamica che Obama, in una prospettiva socialdemocratica e
riformista, potrebbe adoperare contro l’establishment finanziario per
salvare il sistema) è ancora tutta da vedere.

CRISI DEL “KEYNESISMO”
FINANZIARIO

Gli sviluppi della crisi
non sono al momento prevedibili – anche perché il tutto non si può
leggere come un quadro strutturalista, in cui il conflitto viene
dopo, a margine e su questioni redistributive: non è affatto così,
anzi il conflitto è centrale. Si può invece dire che:


– Non c’è alcun ritorno al keynesismo di vecchio stampo, tipo
New Deal. Obama non sta attuando un sostegno forte della domanda per
spese sociali e investimenti produttivi pro-occupazione.

– L’amministrazione Obama
è ancora nelle mani di Wall street: nonostante cerchi di
differenziarsi da quella Bush, in politica interna ed estera, i
problemi rimangono. Si rischia che si riformi una bolla, o che
l’economia non riparta causa l’indebitamento.

– Si profilano ombre sul
futuro del dollaro, rimasto lo strumento fondamentale del comando
statunitense sul circuito globale della produzione e della finanza
negli ultimi trent’anni.

Chi sperava che l’Asia
emergente potesse salvare il sistema per il cosiddetto "decoupling"
– la capacità di un attore economico in crescita di "sganciarsi"
dalle ripercussioni sui mercati mondiali dei problemi statunitensi –
si è sbagliato perché l’economia è diventata un’economia del
debito incentrata sugli USA, e sul consumo statunitense basato
sull’indebitamento; paesi come Cina, Giappone e Corea del Sud che
hanno tirato la crescita dell’ultimo decennio, e che presentano un
surplus commerciale, sono sussunti da questo meccanismo finanziario.
Tale surplus viene immediatamente reinvestito dalle banche centrali
asiatiche sui mercati finanziari con l’acquisto di titoli statali USA
– soprattutto buoni del tesoro, i "treasury bonds", e degli
enti parastatali che garantiscono i mutui – come Fannie Mae e Freddie
Mac. Lasciando fuori i petrodollari (la rendita petrolifera che viene
tutta risucchiata dalla City di Londra e dalla stessa Wall Street)
entrano ogni giorno negli Stati Uniti con questo meccanismo più di 2
miliardi di dollari, che vanno a finanziare la domanda che dovrebbe
reggere questo meccanismo di consumo per cui il consumatore USA
sovraindebitato acquista le merci prodotte dalle multinazionali
statunitensi nell’Asia orientale, alle condizioni che sappiamo.

Quello in crisi oggi è
un “keynesismo” (il termine può indurre alla confusione) di
tutt’altro genere, di tipo finanziario: non più spesa sociale,
aumento di salari, tassazione di profitti…ma deficit spending tutto
basato sull’indebitamento come prelievo sulla produzione di ricchezza
in gran parte fuori dagli Stati Uniti, soprattutto in Asia orientale,
come base di un “nuovo” patto sociale costitutivamente fragile
(come si vede oggi). Tale triangolazione, assieme a tante altre
minori basate sui circuiti deficitari – di commercio-surplus-deficit
– e su quelli finanziari – di bilancia dei pagamenti – ha retto fin
dal ’79-’80, pur in maniera instabile, l’economia e la crescita, le
bolle speculative, di borsa, immobiliari e perfino il keynesismo
militare: la guerra in Irak è stata pagata in questo modo dalla
Cina, dal Giappone ed in parte anche dall’Europa. Quando viene messo
in crisi questo sistema a partire dalla coda, dal consumatore
spaventato ed indebitato statunitense, viene meno il "driver"
fondamentale della domanda mondiale: se esso non può più essere il
consumatore USA, allora chi può essere? O si richiude il circuito
della produzione ormai globalizzata e finanziarizzata, o la ripresa
non potrà che essere asfittica, ammesso che possa aversi in tempi
brevi.

In aggiunta a tale
problema fondamentale: che fare del dollaro? La Cina inizia ad avere
problemi in merito, perché l’altro meccanismo finanziario
complementare è l’accumulo pazzesco di riserve in dollari da parte
sua e di altri paesi asiatici: dollari che se dovessero corrispondere
a qualcosa di "reale" andrebbero fortemente svalutati. Non
si tratta di fantascienza perché negli anni ’70, gli Stati Uniti
fecero esattamente questo: svalutarono enormemente il dollaro e lo
sganciarono dall’oro, e si ebbe la fluttuazione dei mercati dei cambi
e l’incremento dell’inflazione (fenomeno peraltro non solo
monetario), e l’aumento del prezzo del petrolio. Infatti, tramite il
deficit di bilancio USA (pur in misura limitata rispetto a oggi) e
tramite altri meccanismi finanziari della prima Bretton Woods, tra
gli anni ’60 e inizi ’70 era stata messa in circolazione una bolla di
petrodollari ed eurodollari sulle piazze finanziarie mondiali.

GENESI DI "BRETTON
WOODS II"

Ripercorrere la genesi
dell’assetto odierno, che si potrebbe chiamare della "Bretton
Woods II", ci aiuta a mostrare come è strutturato,
evidenziandone anche l’estrema precarietà ed instabilità, e si
accompagna ai processi di trasformazione della composizione di
classe, in Occidente e non. Ancora, non si tratta di un quadro
essenzialmente strutturale, in cui il conflitto è assente: anzi,
questo percorre e permea il tutto, sia con il lungo ’68, sia quando
esso non si dà immediatamente alla superficie.

In estrema sintesi, visto
cosa rappresenta oggi questa Bretton Woods II, bisogna tornare a
ritroso fino all”89 – all’apertura degli anni ’90 che vedono il
cambiamento totale del quadro geopolitico e alle basi di ciò negli
anni Settanta. Perché è caduta l’URSS? Al di là dei limiti
oggettivi del socialismo reale, a partire dalla sconfitta
statunitense nella guerra del Vietnam (picco delle lotte di
decolonizzazione, con grossi agganci al lungo ’68 in Italia e non
solo) i repubblicani di Nixon prendono atto dei propri limiti e,
nello scacchiere est-asiatico di confronto della guerra fredda,
avviano il "rapproachment" con la Cina di Mao. Finisce
l’ostilità reciproca, rimpiazzata da una tacita alleanza che permane
tuttora: non in termini militari e politici, ma finanziari ed
economici (termini alla base del cosiddetto "G2 informale"
di USA e Cina oggi) e rivolta contro l’URSS – che negli anni ’60 e
’70 anche sulla base della raggiunta “parità strategica”
nucleare sembrava in ascesa nei teatri del Corno d’africa, Angola,
Cuba e Medio Oriente ed in grado di fare da sponda al movimento di
liberazione anticoloniale – costringendola alla difesa su due fronti.

Non a caso gli anni ’70
si chiudono con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS,
"imperialista" e "difensiva" al tempo stesso nel
quadro del “triangolo strategico” Usa-Urss-Cina, che apre il
grande gioco degli Stati Uniti e di una Cina loro tacita alleata.
L’amministrazione repubblicana di Reagan – dopo la “debole”
parentesi di Carter con la politica filocinese appoggiata dal
Pentagono e dal consigliere per la sicurezza nazionale Brzezinski
(già falco anti-URSS e autore della strategia delle provocazioni che
portano all’invasione dell’Afghanistan, oggi consigliere di Obama)
che porta al riconoscimento ufficiale della Cina – fa fronte con la
Cina contro l’URSS, rafforza l’alleanza con la monarchia saudita
reazionaria finanziando la guerriglia islamista, corsa al riarmo,
ecc. Un insieme di dinamiche che l’URSS non può sostenere, e che
portano al suo crollo.

Questo è il quadro
complessivo, con il riavvicinamento della Cina maoista e poi
denghista negli anni ’70 agli USA che ha fornito la condizione
geopolitica in grado di sostenere la ripresa degli Stati Uniti dalla
guerra in Vietnam e dalla fine dell’assetto di Bretton Woods I. Cosa
si può dire su quest’ultimo aspetto?

NIXON SHOCK

Nel 1971 Nixon era stato
costretto a sganciare il dollaro dall’oro, portando alla fluttuazione
ed una notevole svalutazione del biglietto verde. Cos’era successo?
La conferenza di Bretton Woods del 1944 vede l’imposizione del
signoraggio del dollaro su un’Europa occidentale distrutta e divisa,
il piano Marshall del ’47 garantisce il predominio statunitense su
di essa. Quando l’Europa occidentale si riprende, e con essa il
Giappone (quest’ultimo con la ristrutturazione produttiva toyotista,
resa possibile dalla sconfitta del conflitto operaio nei primi anni
’50 che porta alla normalizzazione delle fabbriche: nesso
lotta-ristrutturazione), inizia a essere messa in discussione la
primazia economica degli Stati Uniti, la cui bilancia dei pagamenti
inizia ad andare in deficit già a fine anni ’50. Con la guerra di
Corea del ’50-’53, il riarmo anche nucleare e, soprattutto, la guerra
del Vietnam, da Kennedy in poi viene messo in atto un fortissimo
keynesismo militare.

Parallelamente, esplodono
le rivendicazioni del movimento dei diritti civili, della classe
operaia bianca, dei neri e degli studenti. Gli enormi deficit
militari e in spesa sociale che si aprono producono il deficit
statunitense, mentre le corporation USA investono massicciamente
all’estero a suon di dollari, facendo più profitti lì che in
patria. Da qui iniziano il downsizing, la relativa
deindustrializzazione degli USA e la creazione di una bolla di
dollari al loro esterno: prima eurodollari, poi petrodollari (quando
sale bruscamente il prezzo del petrolio) che iniziano a fluttuare sui
mercati finanziari e spingono per la deregolamentazione, la fine del
keynesismo e del compromesso postbellico tra classe operaia fordista
occidentale in lotta da un lato e stati del welfare dall’altro.

Bretton Woods I finisce
perché Nixon, davanti all’indebitamento USA ed al rischio di crollo
del dollaro preferisce gestire da sé tale situazione e, facendo
svalutare il dollaro sganciandolo dall’oro, svaluta il proprio debito
facendolo ripagare a Germania, Giappone ed Europa. L’inflazione
cresce di colpo, e con essa il prezzo del petrolio: la rendita
petrolifera (non avendo i paesi OPEC innestato un ciclo industriale
autonomo di investimenti) finisce a Wall Street e nella City.
L’aumento del prezzo del petrolio sottrae risorse a chi non lo
possiede (ancora Giappone ed Europa, altro travaso di capitale verso
gli Stati Uniti) e gli USA riescono a riprendersi economicamente
dalla sconfitta del Vietnam.

L’INFLAZIONE NEGLI ANNI
‘70

Anche se il tema è
controverso, l’inflazione degli anni ’70 ha rappresentato una
risposta alla crisi di profittabilità del capitale ma anche,
provvisoriamente, la continuazione del compromesso sociale – pur
basato sulla forte conflittualità insorta negli anni ’60 (in Italia
da Piazza
Statuto
in poi) – quando le condizioni non lo permettevano più.
Da un lato i molti dollari stampati permettevano agli USA di non
pagare debiti e di erogare salario diretto ed indiretto aumentando i
deficit pubblici – cresciuti notevolmente in occidente dagli anni ’60
in poi laddove in precedenza erano bassi e ben governati – mantenendo
il compromesso sociale.

Invero l’inflazione
svaluta il salario ma, con una conflittualità basata su di un tipo
di composizione tecnica e di produzione fondamentalmente rigida, le
lotte operaie riuscivano a recuperare abbastanza bene (cosa ora
inconcepibile con la flessibilizzazione e la digitalizzazione) ed
insieme ad esse, con l’ampliamento della spesa pubblica, anche i
movimenti dei diritti civili e delle donne. L’inflazione è servita a
svalutare il dollaro mantenendo la sfera del controllo saldamente
nelle mani degli USA perché non c’erano alternative – né da parte
europea, né militare, né del socialismo reale.

Ma a fine anni ’70
l’inflazione diventa un rischio altissimo per i capitali finanziari,
in particolare per quelli che iniziano a transnazionalizzarsi e sono
legati direttamente a Wall Street ed allo stato USA; quasi
scavalcando gli altri stati nazionali, la cui decadenza (non
scomparsa) e ristrutturazione in fase di globalizzazione è stata
anticipata da queste dinamiche.

Rischi ed ostacoli
dell’inflazione per i profitti si riassumono in:

1) Inflazione produce
incertezza, perché non si sa ancora se con i cambi fluttuanti giorno
per giorno si possa perdere o guadagnare.

2) Classe operaia che
prima della ristrutturazione postfordista recupera facilmente con il
conflitto.

3) Lotte, riproduzione,
aumento livello sanità e spesa sociale – che comportano altre
detrazioni sui profitti.

Quando il presidente
democratico Carter chiama alla Federal Reserve Volcker – un
monetarista, ora coincidenzialmente a capo del Consiglio
Presidenziale per la Ripresa Economica dell’amministrazione Obama –
per discutere l’azzeramento dell’inflazione (ai fini di bloccare il
lungo ’68, tagliare le gambe ai sindacati dell’auto in USA ed alle
insorgenze degli operai-massa nel resto del mondo ed evitare la fuga
sui mercati dal dollaro eccessivamente svalutato) anche i capitali
finanziari fluttuanti – la global class embrionale – pongono
l’aut-aut a Washington. Non è quindi lo stato che impone: esso è
piuttosto lo strumento della nascente borghesia transnazionale (da
non intendersi come blocco unico, perché in contrasto al suo
interno, ma che è accorpata attorno al polo USA).

Quindi il massimo stato
nazionale, gli USA, deve tenere conto del capitale transnazionale e
di quello finanziario, con il dollaro come punto di incontro. In tal
modo viene creata una recessione ad arte, durissima: vengono alzati i
tassi di interesse fino al 20%, si tagliano le gambe a tutti i nemici
precedentemente individuati e si impongono il reaganismo ed il
thatcherismo. E’ Reagan ad ampliare a dismisura i deficit statali:
da lì in poi, gli USA diverranno il massimo debitore mondiale,
condizione da cui non torneranno più indietro. Si amplia
contestualmente la spesa militare con la corsa al riarmo che
contribuisce al crollo dell’URSS; verrà leggermente ridotta da Bush
padre, ma pur sempre mantenendosi ai livelli della seconda guerra
mondiale.

Le elite fanno
definitivamente i conti con la composizione di classe fordista;
inizia così la fine del vecchio movimento operaio, il cui tipo di
produzione viene delocalizzato in Asia orientale – attorno al
circuito giapponese ed a quello cinese, in cui contestualmente
vengono attuate le riforme di Deng. Il cerchio sembra chiudersi… a
spese del “lungo ’68” mondiale.

LE RELAZIONI
SINO-AMERICANE E NUOVO “NEW DEAL”

Queste riforme non
vengono interrotte dai fatti di Tienanmen, bensì incentivate. Ai
tempi di Bush padre, nonostante la critica pubblica mossa dagli USA
alla Cina rispetto della mancanza di democrazia e della repressione
al suo interno, le viene assicurata in privato la continuità, con un
ulteriore accentuamento nel post-’89 del ruolo di opificio mondiale
del paese asiatico. Vi si assemblano prodotti di basso-medio livello
tecnologico provenienti da altri paesi estremo-orientali; vi si
importano le macchine dal Giappone; si esportano le merci negli USA e
nell’UE, vendute tramite multinazionali della distribuzione come
Wal-mart in un circuito veramente globale. Queste multinazionali
iniziano a fare profitti direttamente sulla circolazione, il che non
vuol dire che quest’ultima diventi immediatamente produttiva, ma che
la leva finanziaria, il dollaro, il controllo dei circuiti di
anticipo e circolazione del capitale e tutti i meccanismi della
distribuzione permettono di ridurre il valore aggiunto destinato ai
produttori. Quello della Cina è uno strano fordismo, sussunto dai
meccanismi finanziari e dal controllo tramite dollaro e indebitamento
statale Usa, portato avanti dal knowledge worker della finanza, e
combinato con forme di produzione pre-fordiste, imprese familiari a
rete (come per le comunità cinesi d’oltremare), ecc.

Apriamo una “parentesi”
sugli aspetti di classe che questa situazione riconfigura. La
composizione di classe mondiale si va a stratificare in una catena
del valore interconnessa: il comando diventa “integrato”, e lo
spettro varia dal lavoro integralmente schiavistico a quello
creativo-artistico del migliore dei lavoratori della conoscenza.
Anelli estremi di una catena che si regge sui circuiti finanziari e
sulla bolla finanziaria che ha iniziato a crescere incredibilmente
proprio con Reagan. Quando si parla di keynesismo finanziario negli
USA – sul versante della riproduzione sociale: indebitarsi per
iscriversi all’università, investire i propri risparmi nei fondi
pensione, in borsa e nelle assicurazioni mediche, legare insomma la
riproduzione della propria vita e di quella della propria famiglia in
tutti i sensi ai mercati finanziari – è chiaro che per tutta una
certa fase, soprattutto negli anni ’90 della globalizzazione
ascendente e clintoniana, esso ha goduto di un reale consenso nella
middle class, sulla spinta della trasformazione della composizione di
classe avvenuta durante il periodo reaganiano e della passività
degli strati proletari.

Cosa è successo? E’
tramontata la composizione sociale ed elettorale "new-dealista",
quella da Roosevelt a Johnson (e che non a caso Carter non è
riuscito più a rieditare), anche a seguito della stessa pressione
esercitata dalle lotte della working class bianca, ma soprattutto dei
neri, degli studenti e dalle donne che avevano lottato sui diritti
civili, sulla guerra e sulla riproduzione appunto per farsi
corrispondere lavoro non pagato ecc. Ma intanto cos’era successo ai
salari diretti? Mentre dal New Deal fino agli anni ’70 il "male
bread-winner" bianco (che portava a casa uno stipendio o salario
sufficiente alla famiglia con il suo solo lavoro) bastava per
mantenere la moglie casalinga ed i figli (che iniziavano a potersi
permettere il college), dagli anni ’70 in poi progressivamente moglie
e marito, compagno o compagna o comunque l’"household"
familiare necessitano di due lavori: occorre indebitarsi per andare
al college piuttosto che per curarsi e così via.

E’ questa la base su
cui il capitale, attaccando la vecchia composizione di classe, è
riuscito a collegare il salario diretto ed indiretto (quindi la
riproduzione) ai mercati finanziari. Paradossalmente, la
finanziarizzazione dell’accumulazione capitalistica diviene la
condizione di possibilità anche della realizzazione diffusa
dell’”esodo” dal lavoro salariato frutto delle lotte degli anni
Settanta (v. genesi del lavoratore della conoscenza), e viceversa
ovviamente. Forte di questo tipo di consenso degli anni ’90 si è
tentato un "nuovo new deal" a suo modo anti-statalista (nel
senso liberista), servendosi all’occorrenza dell’unipolarismo
statunitense e delle guerre umanitarie nella speranza di nuova fase
capitalistica ascendente, un nuovo ciclo che andasse oltre il
fordismo, stabilizzandolo. Tuttavia la pressione, cioè la presenza
dei soggetti sociali e delle classi lavoratrici in senso lato, era
all’opera anche in quel contesto: un’inedita presenza della
“classe” nel capitale, anche con la proletarizzazione dei ceti
medi che si dà nella forma della finanziarizzazione della vita (più
che in quelle “canoniche” dell’impoverimento assoluto). Si
tratterà di vedere, domani, come la nuova composizione sociale si
ridislocherà al momento di prendere atto che con la crisi globale il
"deal" è fallito.

NO GLOBAL

Nel frattempo, assieme
alla distruzione del vecchio movimento operaio ed alla
finanziarizzazione del ciclo di accumulazione, sale l’indebitamento
del terzo mondo tramite il meccanismo del prestito internazionale. Si
inizia a creare questa bolla, per cui si preda valore mercificando la
riproduzione, delocalizzando la produzione, facendo outsourcing
oppure rubando risorse naturali ed umane, con le esternalità
negative connesse – e da lì cambia il ruolo del FMI della Bretton
Woods I, che in principio doveva mettere in ordine i deficit
reciproci tra paesi occidentali. (La Cina partecipa in modo peculiare
a questo ciclo perché il capitale occidentale, oltre a predare
valore prodotto in quel paese, rende compartecipe l’elite cinese allo
sfruttamento della propria massa operaia e contadina, con gli effetti
che vediamo oggi). Partono i piani di aggiustamento strutturale
contro il Sud che lo porteranno al disastro – al deserto visto in
Argentina, che negli anni ’50 toccava livelli di sviluppo
paragonabili a quelli italiani. Il no global nasce lì, nelle
risposte di fine anni ’80 ed anni ’90 contro il FMI, come ci mostrano
i film di Fernando Solanas.

A Seattle viene fuori un
movimento nuovo, non sull’onda della decolonizzazione come nel ’68:
il sud del mondo, raggiunta l’indipendenza, intraprende percorsi
eterogenei. Utilizzando la terminologia di Wallerstein ed Arrighi, la
periferia si sfrangia nel senso che, mentre un certo sud come la Cina
ed altri paesi del sudest asiatico si integra nell’economia globale,
un altro – l’Africa – ne viene tagliato fuori. L’India si trova nel
mezzo perché appoggiandosi agli Stati Uniti, ma priva di una
rivoluzione contadina democratica come avvenuto in Cina, affronta
maggiori problemi nell’industrializzarsi. Occorre una lotta di tipo
nuovo, e l’America Latina in ciò è avvantaggiata perché riesce a
sfruttare contro le forme più alte di sviluppo della globalizzazione
il comunitarismo indigeno progressivamente e non reazionariamente. Lì
si iniziano a trovare quegli spunti, coalizioni, accordi che
porteranno a Seattle, Genova ed oltre. Ma il tutto finisce a Bombay,
non a caso punto di incontro e crinale della globalizzazione
filoccidentale e dell’antiglobalizzazione rappresentata da attivisti
come Arundhati Roy. Il no global si ferma lì, e non può parlare
alle classi lavoratrici cinesi ed est-asiatiche, proprio perché il
tipo di sviluppo e di intreccio con la globalizzazione targata USA
che coinvolge queste ultime (attraverso la classe borghese cinese) è
differente dalle problematiche del movimento no global di qui.

Punto di domanda: cosa
faranno queste classi lavoratrici, come soggettività potenzialmente
antagonista? Stanno già lottando, e su questo è interessante tutta
l’analisi di Arrighi e di Beverly Silver. Ma quale rapporto si dà
tra lotte operaie e sviluppo cinese? E’ tutto oggetto di ricerca…

PROFITTI, PRODUZIONE,
DEBITO

Altro punto di domanda:
perché negli anni ’90 assistiamo a profitti reali pazzeschi pur in
presenza di un’accumulazione – tolta la crescita asiatica –
abbastanza asfittica (aumenti del PIL nell’ordine dell’1-2% annuo in
occidente)? Si può dare una risposta tradizionale, come fanno la
scuola regolazionista francese e Le Monde Diplomatique: sono profitti
di carta, la produzione reale è surclassata dalla speculazione.

Così, a loro dire, ci si
potrebbe salvare trovando un nuovo compromesso sociale, una nuova
regolazione. Questa intellettualità francese di sinistra si è
spinta fino a proporre un protezionismo anticinese e pro classe
operaia, ed in ciò simile ai discorsi di Tremonti. Perché? Perché,
a loro dire, non solo i cinesi fanno precipitare i nostri salari
perché producono a meno, ma investono il mondo dei loro risparmi,
diventando responsabili della creazione della bolla. In parte questo
discorso viene ripreso anche negli Stati Uniti tranne che da parte
dei più intelligenti, i quali sono ben consci che le cause sono
altre: però si cerca sempre qualcuno su cui scaricare la colpa. E’
una risposta che dobbiamo iniziare ad aspettarci, paradossalmente con
una sponda a sinistra, da una parte del vecchio movimento operaio.
Come dire: difendiamo i nostri lavoratori, la colpa è della Cina. In
merito a questo, dovremmo iniziare a discutere di come la
soggettività (anche quella non antagonista) si dislocherà.


Si può anche rispondere da un punto di vista critico,
neomarxista. Da un lato con il capitalismo cognitivo, o più
precisamente il biocapitalismo che comporta sussunzione reale: tutta
la vita, il tempo di lavoro, la natura, la riproduzione viene messa a
valore con le ripercussioni che sappiamo. Si possono allora spiegare
questi enormi profitti in presenza di un’accumulazione asfittica
perché il paradigma è cambiato, e non è più quello fordista ma
quello cognitivo. Dovremmo cambiare gli indici: si accumula sulla
vita, sulla conoscenza, sul cervello e così via. Ad esempio
Christian Marazzi prospetta una crisi profonda e strutturale, ma di
contro proprio su questa base interpretativa si potrebbe pensare che
la crisi sia di passaggio, che il capitalismo e l’elite abbiano
bisogno di una regolazione adeguata al capitalismo cognitivo, al
nuovo paradigma di produzione e di accumulazione (nelle analisi
postoperaiste appaiono entrambe le versioni). Anche in quest’ultimo
caso non sarebbe comunque un passaggio indolore, e si potrebbe aprire
un varco per l’opzione antagonista, riprendendo le lotte attorno al
nuovo (vero) new deal, al welfare, al reddito di esistenza, ecc. Sono
tutti problemi da porsi, perché ognuno di questi avrà una
ripercussione sulla mobilitazione delle soggettività antagoniste.

Sicuramente si è aperto
un nuovo terreno, e su questo Marazzi ha perfettamente ragione:
indietro non si torna. Lottare sulla produzione immediata – cioè
contro la chiusura delle fabbriche, per i salari ed i redditi – non è
sbagliato, ma non è più lì la leva per cui la lotta diventa potere
– un tempo operaio, oggi non più solo esclusivamente tale. Come
lottare piuttosto contro il debito, quando i meccanismi di
indebitamento ti hanno coinvolto? La lotta diventa veramente sulla
vita sociale: non più come quando, con la lotta dell’operaio
fordista contro la produzione e sulla produzione, avevamo
ripercussioni positive a cascata dalla fabbrica sulla società (per
le donne, i movimenti, ecc.). In quella lotta il potere veniva dal
salario diretto e indiretto, sulla capacità operaia di imporre un
salario più alto con l’organizzazione. Anche in presenza di studi
interessanti nel lungo ’68 fino al ’77 e a Bologna, non si è
analizzato più di tanto il tipo di produzione – come si produce, per
cosa si produce, quando si produce. Pur non volendolo, tutto si
risolveva in una lotta di distribuzione (certo antagonista e
necessaria in quel frangente) che, in quanto tale, lottava su
meccanismi, tempo di lavoro e rifiuto del lavoro, ma che oggi rimane
ancora oggettivamente "incastrata" in quei tipi di
antagonismo e dialettica. Ora il problema è che quel terreno non c’è
più – si provi a lottare in fabbrica: la sola minaccia di
delocalizzare fa calare la tensione interna. Cosa sono allora la
produzione e la valorizzazione oggi?

IPOTECARE IL FUTURO

C’è a proposito nei
Grundrisse una frase di Marx veramente profetica: "La
valorizzazione consiste nella possibilità reale di una più grande
valorizzazione". Oggi per produrre valore occorre impegnare il
proprio futuro – con il comando sul lavoro, porre il lavoro futuro
come lavoro salariato, servile, ecc, nelle forme del lavoratore della
conoscenza, del fordismo sussunto e di tutte le altre.
Paradossalmente il capitale fittizio e finanziario è una polizza sul
futuro che diventa condizione del presente – che non a caso è lo
stesso concetto di virtuale. Esso è già effettivo ed ha influenza
sul presente e sul reale, cosa interessante rispetto ai processi di
astrattizzazione del capitale che sono tutti dentro ai dispositivi
della rete.

Si guardi cosa stanno
facendo Marchionne e il capitale industriale-fittizio non in senso
speculativo e reale ma marxiano, tramite titoli cartacei che
permettono un prelievo sulla ricchezza del futuro. Cosa gestisce
Marchionne? Un’industria con debito fornito dagli stati ma per
tagliare posti di lavoro, non per ampliare l’accumulazione
industriale. Per mettere su un marchio che valga più degli altri,
creare una bolla, far salire i prezzi delle azioni e dei derivati e
profittare di tutto ciò. Questo è il più grosso manager della
classe transnazionale in Italia. Perché lottare sul nuovo terreno
del debito, della vita sociale? Perché la finanziarizzazione come
finanziarizzazione dei consumi, del salario diretto ed indiretto, di
tutta la produzione è il lato perverso della socializzazione
capitalistica del lavoro, che è un lavoro globale in rete, che
comporta un altissimo impatto sul globo.


Per lottare è come se si dovesse affrontare il rapporto
sociale di produzione e riproduzione capitalistico, non la produzione
e neanche la riproduzione immediate: per cosa si produce? Come ci
riproduciamo in comune? Il capitalismo si riproduce nel comune, ma in
un comune distruttivo. Qui c’è la grande potenzialità dei futuri
antagonismi e soggettività: in tutta la fase keynesiana e fordista e
ancora con il tentato "nuovo new deal" finanziario le elite
globali hanno fatto vedere che il capitale si riproduce. In modo
ingiusto, ma permettendo intanto la riproduzione sociale dei singoli
come uomo, donna,ecc. Ora le due cose si stanno veramente
divaricando: come aveva capito per primo il sud del mondo col
movimento no global, la riproduzione sistemica è sempre più
predatoria e vorace sulla riproduzione sociale complessiva – ed è
questa la contraddizione che i nuovi antagonismi hanno il compito di
far emergere.

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