Il browser è mio e me lo gestisco io!


Osservare il flusso di informazioni che si genera in rete è sempre
un’esperienza istruttiva: a volte se ne resta colpiti per la potenza
circolare, a volte suscitano ammirazione le sofisticate tecniche
comunicative di chi è in grado di manipolarlo ed indirizzarlo, altre
ancora provocano ilarità i grossolani autogol  di chi se ne ritrova
involontariamente sommerso. E questo è il caso di cui vorremmo parlare
oggi.

MediaFire è un servizio di file-hosting che offre spazio
illimitato agli utenti che vi si registrano. Forse chi legge già lo
conoscerà: si tratta di un’azienda web assimilabile a RapidShare o
MegaUpload, tipici diversivi a cui spesso si fa ricorso durante le
serate di noia passate in solitudine, quando l’ormai usurato hard disk
esterno non ha più nulla di stimolante da offrire e si cerca quindi
disperatamente riparo fra i contenuti aggregati negli anfratti della
rete.

Come la maggior parte delle forme di web-business ( quasi
la totalità a dire il vero ) anche questa si basa sulla pubblicità:
durante l’attesa per poter cominciare il download del film o del
videogame a cui siete interessati dovete sorbirvi alcune tediose
strisce pubblicitarie a cui normalmente quasi nessuno presta mai
particolare attenzione (anche perché, indipendentemente dall’attrattiva
che determinati prodotti possono esercitare, il reddito disponibile ai
più ormai viene rosicchiato giorno dopo giorno come i metri che
intercorrono tra due trincee in una guerra di posizione, rendendo
qualsiasi necessità o desiderio nulla più che una mera velleità).

Fatta questa premessa non stupisce che a qualcuno sia balenato per la testa un pensiero (
"Man, iskp that isht! "
) e che di conseguenza quel qualcuno abbia deciso di metterci le mani
sopra, dandosi da fare per porre fine a tale supplizio, scrivendo una
piccola estensione di Firefox ( SkipScreen ) che aggira la pubblicità ed il problema.

Quando
si parla di aziende del "web 2.0" , di fronte ad un fatto di questo
genere sarebbe lecito aspettarsi una certa composta rassegnazione
dettata dal neo-positivismo strisciante: è ancora fresca la memoria del
tecno-determinismo di Jerry Yang, quando nel 2000 irrise la sentenza di
una corte parigina che imponeva a Yahoo! di inibire ai cittadini
francesi l’accesso ad un sito che commerciava in cimeli nazisti. Le
repliche dell’allora signore dei motori di ricerca alle richieste
togate transalpine suonavano più o meno così: "Ehy baby, è la tecnologia!" ( poi la vicenda andò a finire in altro modo, ma questa è un’altra storia ).

Stessa
risposta si potrebbe dare oggi alla signora Caterina "Sugar" Caselli,
la quale, nel triste tentativo di difendere i profitti  della sua
oscura compagnia discografica, da diverso tempo è impegnata in una crociata
( ad armi impari ad onor del vero ) contro il Grande Satana della
nostra epoca ( Internet, non Bin-Laden ), additandone uno dei maggiori
adepti ( Google ) come demoniaco adescatore indebito e giustiziere
implacabile della "cultura altrui". Posizione difficilmente
difendibile, e non solo per il discutibile assetto filosofico di tale
asserzione: semplicemente la fruizione della musica non passa più per
gli scaffali dei negozi di dischi ma per le migliaia di micro-nicchie
culturali che si creano sulle altrettante piattaforme ( legali o meno )
presenti in rete, bypassando quella macchina generatrice di profitti
che era l’industria discografica.
Insomma "zucchero"… È la tecnologia!
Comprati il tuo social network e spera che qualcuno cominci a remixare
e diffondere "Nessuno mi può giudicare". Così resti fedele al tuo ruolo
di burattinaia mainstream e magari qualche spicciolo riesci a
ragganellarlo.

E MediaFire? Mediafire è un’azienda web, fresca,
moderna! Ha chinato la testa di fronte all’estensione di Firefox di cui
parlavamo sopra? Ha incassato dignitosamente sussurrando a denti
stretti "Tanto un modo per scipparvi soldi lo troveremo uguale"? Ha
smaltito la delusione creando un gruppo su Facebook chiamato: " Ehy baby! That’s…" Beh insomma, avete capito.

Nossignore, loro non ci stanno!
Loro
se ne sbattono i sacrosanti attributi delle tecnologia se a fine mese
il bilancio è in rosso ed il pallido spettro mortifero della bancarotta
è in agguato dietro l’angolo. Rifiutare i loro banner pubblicitari è come rubare!
E così hanno schierato il fior fior del loro team legale parabellum efficacemente affiancato da esperti di "public relation" di indubbia competenza, caricando a testa bassa ed intimando a Mozilla di rimuovere l’addon dalle loro directory.

Il che francamente è risibile: come ha scritto giustamente la Electronic Frontier Foundation in merito alla vicenda, il fatto che tali signori aprano un sito web per farci letteralmente gli affari loro
non significa che possiedano il browser di chi lo visita, né che
possano controllarlo e deciderne la configurazione o che tanto meno
abbiano il potere di stabilire che cosa debba apparire sul schermo dei
netizen in nome della loro professione di fede al dio mercato.

Per far comprendere l’assurdità della vicenda proviamo a tracciare un parallelo.
TrackMeNot
è un’ applicazione di Firefox che genera false richieste di ricerca
rendendo teoricamente più difficile la profilazione dei comportamenti
del singolo utente, difendendone così la privacy. Vi immaginate Google
che intima a Mozilla di rimuovere dall’elenco delle estensioni rese
disponibili al pubblico TMN perché questa contrae il prezzo di mercato 
dei suoi banner personalizzati ?
 
Sarebbe una mossa quanto mai controproducente ( oltreché inutile ) per diversi motivi:

  • Google si guadagnerebbe il marchio infamante del censore più di quanto non abbia fatto fin’ora.
  • Il software una volta rimosso riapparirebbe immediatamente in rete, mirrorato da decine di siti e piattaforme di filesharing.
  • Chi
    lo sviluppa, verrebbe avvolto da un aura mitica di eroismo in quanto
    eroe colpito dalla censura nella lotta contro l’arroganza
    dell’industria dei meta-dati e troverebbe motivazioni, collaborazione e
    supporto per migliorare il suo progetto.
  • Il passaparola in
    rete si diffonderebbe in poche ore ed una porzione sempre maggiore di
    utenti comincerebbe ad usufruirne generando query false e randomiche
    capaci di creare ben più problemi al PageRank di Mountain View  di
    quanti ne avesse in precedenza. 

Una dinamica simile si
è materializzata per MediaFire: l’azione legale inscenata dai
neo-piccoli-fratelli ha suscitato reazioni al limite dell’indignazione
(non solo di EFF ma anche di diversi commentari on-line
che vivono di annunci pubblicitari) che in un battito d’ali si sono
trasformate in onde di cinguettii e segnalibri condivisi su Delicious,
facendo impennare il numero di download di SkipScreen: dalla cache di Google
risulta che tra ieri ed oggi l’estensione aggira-pubblicità (o se
preferite la "pistola fumante" della rapina in rete) è stata scaricata
circa 20000 volte.
Risultato: se davvero
SkipScreen era una crepa nel sistema imprenditoriale di MediaFire ora
grazie alla popolarità di cui stata investita ed alla sua conseguente
diffusione virale diventerà una voragine.

Nel frattempo la crew che sviluppa SkipScreen, dopo essere stata ad un passo dal martirio canta vittoria , dichiarando fra i gorgheggi che "Wherever you need to click through ads or wait for countdowns, SkipScreen will be there to make your life easier" e anche che "SkipScreen will be tenaciously maintained and improving all the time".

Questa vicenda è un giano bifronte.
Se
da una parte mette ben in risalto come per una certa corrente
anarco-capitalista la condivisione e la libertà di circolazione delle
informazioni siano da tutelare solo se controllate e portatrici di
immediate ricadute benefiche sui profitti aziendali, da un’ altra, come
abbiamo già avuto modo di scrivere sul nostro canale Twitter, rappresenta "un edificante esempio di intelligenza machiavellica, autolesionismo e sopratutto marketing virale".

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