Informazioni di Parte – Intervento di Carlo Formenti


Dopo aver pubblicato il contributo di SIlvano Cacciari, continuiamo la trascrizione del ciclo di incontri “Informazioni di Parte. Per un nuovo mediattivismo tra disordine globale e narrazioni insorgenti”, tenutisi lo scorso maggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. È questa volta il turno dell’intervento di Carlo Formenti, docente di Scienza della comunicazione all’università di Lecce ed autore di testi importantissimi per una lettura critica dei mutamenti economici, sociologici e politici avvenuti a partire dall’emersione di internet come terreno di produzione immateriale e conflitto, quali “Mercanti di Futuro”,” Cybersoviet”, “Se Questa è Democrazia” ed il suo ultimo “Felici e sfruttati”.

Un intervento, il cui portato è di un’attualità scottante, all’interno del quale vengono presi in esame ed esplorati i terreni di scontro su cui oggi si stanno giocando i processi di costruzione dell’egemonia nelle loro diverse sfaccettature (mediale, finanziaria, politica e culturale). Dalle rivolte arabe alle lotte degli operai cinesi, dalla Silicon Valley fino alle fabbriche della Foxconn, Formenti con la consueta lucidità getta uno sguardo d’insieme sulle insorgenze verificatesi nell’ultimo anno, offrendo sponde di riflessione ed affrontando nodi teorici che spetta all’informazione di parte sciogliere nella pratica quotidiana.

Nelle prossime settimane pubblicheremo l’intervento di Federico Montanari, l’ultimo dei tre relatori del ciclo di incontri.

 

*Avvertenza. Il testo che vi presentiamo è stato preso in esame e riletto ma non corretto dall’autore.

Ringrazio Silvano per questa stimolante chiacchierata che mi permette di aggiungere una dimensione di riflessione al mio intervento rispetto a quella che avevo pensato di affrontare. Vorrei però fare alcuni incisi che mi vengono spontaneamente dopo averlo ascoltato.

Primo. Pur potendo sembrare paradossale, la componente operaista degli anni ’70 era più togliattiana che vittoriniana. Dal punto di vista mediale amavamo Sergio Leone, cioè la versione filmica del romanzo popolare. Quando verso la fine degli anni ’70 tutti cominciavamo a sentire odore di catastrofe tendevamo ad identificarci in J. Coburn, un terrorista irlandese che era passato su un altro fronte e metteva in atto i suoi saperi e le sue conoscenze all’interno della rivoluzione messicana. Questa nostra maggiore flessibilità ed al tempo stesso attenzione nei confronti della comunicazione ha fatto si che qualche anno più tardi la “neo-televisione” (come la chiama Umberto Eco) si sia appropriata della capacità di innovazione espressa dai movimenti.

Secondo. Io insegno scienze della comunicazione e mi sono trovato a fare da correlatore per una tesi di laurea con un oggetto abbastanza curioso ovvero il sindacalista Di Vittorio. Perché una tesi su Di Vittorio in scienze della comunicazione? Per via della sua abilità oratoria. Di Vittorio è stato un personaggio straordinario che ha cominciato ad organizzare le lotte bracciantili in Puglia all’età di 12 anni. È diventato rapidamente una figura carismatica e per altro abbastanza odiata dai membri del PCI di allora. Ma perché è così attuale la figura di Di Vittorio e la sua capacità di costruire una sorta di “romanzo popolare” sul territorio pugliese? Perché oggi ovviamente nella testa di un giovane pugliese essa fa scattare un filo diretto con Vendola, cioè con un altra figura che ripropone in termini clamorosi questa capacità comunicativa (che è appunto una capacità comunicativa assolutamente vintage, da romanzo popolare) con abilità però televisive. Facendo delle ricerche sulla campagna elettorale del 2005 e poi su quella del 2010 ci siamo resi conto che Vendola ha imparato: se fino a 5 anni fa era più ingessato ora è diventato smaliziatissimo. Per tutto un insieme di ragioni potremmo definirlo come un piccolo Berlusconi di sinistra.

Per ora mi fermo con gli incisi ma più tardi vorrei ritornarci sopra dato che questo concetto di egemonia a cui Silvano ha fatto ampio riferimento è fondamentale.

 

Vorrei ora dire alcune cose che riguardano il modo in cui la cultura ed i mezzi di comunicazione occidentale hanno letto le rivoluzioni nord africane, le cosiddette “rivoluzioni di Twitter” (che rivoluzioni di Twitter poi non sono state). Da questo punto di vista mi sento di consigliare a tutti la lettura di “The Net Delusion” di Evgeny Morozov all’interno del quale tutto questo discorso viene smontato pezzo per pezzo. Di contro però viene ricostruita anche la “dottrina Google” (cosi la chiama l’autore) e viene messo in evidenza come essa sia in assoluta continuità con un’idea che attraversa la cultura americana dall’inizio della guerra fredda. All’interno degli Stati Uniti, la componente del pensiero conservatore, afferma che la vittoria contro l’Unione Sovietica sia in larga parte dovuta alla penetrazione dei media occidentali al di la della cortina di ferro. Questo ha delle fondamenta di verità ma è allo stesso tempo un’operazione di egemonia, cioè un’operazione costruita per rimuovere completamente qualsiasi analisi sulle cause e sulle radici profonde del crollo dell’URSS ,quindi sulle lotte di classe, che si sono date in forme diverse rispetto a quelle occidentali, che hanno bloccato l’economia sovietica e l’hanno condannata al crollo. In realtà la propaganda diretta funzionava pochissimo o niente: questo perché penetrava poco ma anche per altri motivi molto più rilevanti. Morozov cita un fatto curioso: dagli archivi della STASI sono emerse delle ricerche promosse dal governo di Pankoff sull’influenza della televisione della Germania Ovest (che le autorità della DDR non riuscivano a schermare perché troppo vicina, in particolare in alcuni lander) sui cittadini della Germania Est. Da queste ricerche è risultato che i lander che avevano accesso alla televisione occidentale vedevano una percentuale di soddisfazione maggiore nei confronti del governo comunista. Perché questo? Non erano certo i telegiornali i programmi più seguiti. Lo erano invece le soap opera ed i telefilm americani rilanciati dalla televisione tedesca. Attenzione allora perché l’egemonia è qualcosa di particolare, poiché essa non si da necessariamente nei confronti dell’ideologia di un governo (e questo fra l’altro ci fa riflettere sulla convergenza progressiva, mano a mano che un progetto politico si avvicina ad una capacità di gestione egemonica nei confronti di un determinato sostrato di classe).

Questa dottrina viene rilanciata a partire da Internet. Se noi guardiamo quali sono le lobby che oggi contano a Washington DC, non possiamo non vedere come i petrolieri dell’era Bush siano stati sostituiti in massa dalla Silicon Valley. E questo non solo perché sono stati loro a gestire la campagna elettorale di Obama, con un dream team in cui erano presenti Google e Zuckerberg (che fra l’altro proprio poche settimane fa ha lanciato la seconda campagna elettorale di Obama in diretta televisiva, scegliendo lui le domande che venivano rivolte al presidente e che arrivavano dalla “base” di Facebook di cui è il re indiscusso) ma anche e sopratutto perché sono penetrati a fondo dentro l’amministrazione (sopratutto come consulenti della Clinton, il segretario di Stato). Ci troviamo così di fronte a personaggi che sono “evangelist” della cultura di Internet (pensiamo per esempio ad un Clay Shirky) che fanno affermazioni secondo le quali «Google non esporta un servizio, esporta la libertà». In realtà ormai Google è diventato un monopolio terrificante che si è ampiamente dimenticato del famoso motto “Don’t be evil” (che per altro non ha mai funzionato fin dall’inizio). Ormai esiste una lettura della penetrazione delle tecnologie e dei social media a livello internazionale, che li individua come il canale dell’egemonia americana, parimenti a quanto accadeva in precedenza con i format televisivi.

Qui si apre un’altra grande questione che è la vera grande novità: format televisivi e rete sono ormai perfettamente integrati. Giustamente Silvano faceva riferimento al fatto che la grande televisione non è stata affatto liquidata come piattaforma comunicativa e questo lo si evince anche dal fatto che nuove forme televisive nascono e si consolidano. È vero che in Italia la televisione generalista continua a funzionare alla grande ma allo stesso tempo è vero che negli altri paesi la televisione sta preparando una nuova stagione di rinverdimento attraverso Internet a partire dai grandi schermi su cui si vedranno i filmati di YouTube (che infatti sta cambiando radicalmente e pur mantenendo la parte dei contenuti autoprodotti sarà sempre più aperta ai format delle grandi major di Hollywood che rimangono il canale privilegiato di introito pubblicitario). Il tentativo in atto è quello di elaborare nuovi format pubblicitari: l’unica cosa che permettono di creare allo stesso tempo ed in modo integrato potenza finanziaria da un lato ed egemonia culturale da un altro. C’è un libro di un giornalista francese, “Mainstream” di Fredric Martel, tutto sommato di poco spessore ma che vi consiglio. Risulta molto interessante perché illustra il diventare mainstream della rete come piattaforma che integra sulla base tecnologica-digitale cinema, televisione, letteratura e chi più ne ha più ne metta, e spiega la lotta per l’egemonia a livello internazionale tra Hollywood, Bollywood (ed adesso comincia ad affacciarsi anche la Cina come produttore indipendente di film, forte com’è del suo mercato di un miliardo di persone).

Questo anche per dire come i giornalisti inviati al Cairo come corrispondenti, a mio avviso esaltavano una rivoluzione di Twitter descritta dalle hall degli alberghi dove guardavano i post che venivano pubblicati sui social network piuttosto che scendere in piazza. Io sono convinto che sia stata molto di più la rivoluzione di Al Jazeera e di Al Arabya che erano viste da tutti e non solamente dai giovani. Vero che c’è una percentuale giovanile della popolazione molto elevata all’interno delle società nord africane ed arabe, però allo stesso tempo è vero che la televisione viene vista da tutti. Al Jazeera d’altra parte è vent’anni che lavora alla creazione di una cultura trasversale ed egemonica, tra l’altro unificata da un’unica lingua parlata da tutti in un’area enorme. Senza tener conto di questo non possiamo comprendere la velocità con cui le rivolte si sono diffuse: perché la televisione è stato il veicolo attraverso cui sono state viste le rivolte partite dalla Tunisia, arrivate in Egitto e giunte poi fino ad altri paesi. Questo non significa assolutamente sottovalutare i new media come canale di diffusione ed organizzazione all’interno di uno strato giovanile che ha delle caratteristiche molto interessanti (scolarizzazione, livello di alfabetizzazione informatica, laicità) e che lo rendono a tutti gli effetti un laboratorio della conoscenza. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano deciso di appoggiare questo strato giovanile, scaricando i governi che fino a ieri sostenevano: a Washington pensano che questa possa essere la nuova classe dirigente in grado di gestire gli interessi delle multinazionali ICT a livello globale. Il fatto che la Clinton batta in continuazione il tasto della libertà della rete in Cina non è certo casuale. La rete è infatti un canale di penetrazione formidabile, di lotta e di competizione culturale oltre che finanziaria ed economica. Il fatto che la Cina tenga al di fuori del suo spazio economico le grandi multinazionali statunitensi dell’ICT non è solo un problema di controllo sulla popolazione. Quando si parla di questi argomenti bisogna infatti tenere in conto che Pechino ha le sue imprese che fanno quattrini nell’enorme mercato cinese e non vogliono avere tra le scatole i social network americani come competitor. È su questo terreno che si gioca la lotta per l’egemonia, prima ancora che su quello “ideologico”. Ed intanto con una faccia tosta incredibile la Casa Bianca parla di “libertà in rete” mentre tentano di portare Julian Assange a Guantanamo per averne messo in trasparenza gli scheletri nell’armadio.

A proposito di Assange e della cultura hacker che ne connota la figura, mi viene da fare una piccola parentesi a proposito di forme dell’egemonia e della loro evoluzione. In una certa misura le avanguardie hacker sono state per tutto il periodo aurorale di sviluppo della rete quelli che costruivano i linguaggi (i “Vittorini digitali” potremmo dire) . Hanno costruito una racconto di élite che è andato bene fino a quando questa élite è stata i grado di essere egemone nei confronti degli strati delle prime comunità virtuali le quali non erano comunque composte da utenti di massa. Oggi abbiamo un’utenza di massa di circa due miliardi di persone che non ha più bisogno di nessuna competenza informatica per essere consumatrice e produttrice di contenuti. Da questo punto di vista sappiamo che la fase di egemonia degli hacker è finita in maniera irreversibile laddove ormai la rete ha oggi un peso a livello mainstream.

Detto questo… ci troviamo ad affrontare problematiche di non poco conto! La domanda è: come si attacca? Io sono assolutamente convinto che non sia possibile fare un discorso di tipo universalistico nel senso che queste piattaforme tecnologiche si integrano e si articolano con le radici culturali, regionali e di composizione di classe (tecnica e politica che sono ovviamente due cose completamente diverse tra loro). Per comprendere questo fatto è sufficiente leggersi il libro “Winners-take-all society” dove viene ricostruito il processo di apertura mostruosa del reddito avvenuto negli ultimi 30 anni in America fino alla distruzione della middle class. Con l’ultima crisi poi stiamo assistendo ad una ripresa economica dove i posti di lavoro non tornano, e se tornano sono tutti nel terziario arretrato. A proposito di lotte studentesche in Inghilterra ed in Italia, perché in Occidente in knowledge workers vengono massacrati? Perché, detto banalmente, non servono più ad un cazzo. La fase della scolarizzazione di massa è finita. La classe creativa si è così aperta in due. Lo strato superiore è totalmente cooptato, ha in mano il potere finanziario ed economico e fa da consulente ai nuovi mostri che stanno insieme ad Obama a Washington DC. La parte inferiore invece è precipitata in una condizione di proletariato, se non addirittura di sottoproletariato. Questa è la realtà che sta emergendo per un’intera generazione, quella di un processo di brasilianizzazione dell’Occidente, così come l’ha definito Saskia Sassen, che si incrocia a sua volta con i processi di occidentalizzazione della classe creativa dei paesi in via di sviluppo. Processi che hanno però esiti diversi. In Cina in qualche modo i lavoratori creativi rappresentano una sorta di classe emergente che sta cominciando a farsi sentire. Basta guardare le lotte degli operai cinesi alla Foxconn o alla Toyota che hanno portato ad un aumento del 15% dei salari cinesi negli ultimi anni. Un fatto che è destinato a cambiare i rapporti di forza tra Stati Uniti e Cina. Un fatto che metterà in discussione il cosiddetto modello Wal Mart che permette sia la vendita di prodotti cinesi a basso costo sia di tenere bassi i salari degli operai americani. Un modello che andrà a saltare perché i costi dei prodotti cinesi aumenteranno in proporzionalmente con l’aumento dei salari dei lavoratori cinesi. Insomma stiamo entrando in una fase di destabilizzazione globale.

Nonostante la progressiva proletarizzazione della middle-class americana non possiamo non rilevare una tendenza che vede il suo indicatore di voto registrare una sempre più marcata preferenza per il partito repubblicano. Come è possibile che questo accada? Da questo punto di vista esiste una riflessione abbastanza interessante sull’evoluzione della cultura new left statunitense. Il voto a destra si spiega come reazione d’odio ai “fighetti” della sinistra americana. L’immagine che hanno delle lobby emergenti della Silicon Valley è un’immagine di nemici di classe. Anche questa è una storia dal sapore vintage: fra le due guerre mondiali, dopo la crisi del ’29 emerge l’egemonia del nazismo in Germania e del fascismo in Italia, dove le masse popolari sono state mobilitate dalla destra e non dalla sinistra, portando alla creazione dei regimi che ben conosciamo.

Resta che siamo in una fase molto difficile e critica alla quale non abbiamo grandi risposte da contrapporre. In realtà in Italia l’unico esempio di un modello di un “contro potere” al modello televisivo è la Lega. Dal punto di vista del mainstream ha un potenziale di comunicazione molto basso ma allo stesso tempo ha ereditato la funzione di sindacato di territorio dalla sinistra PCI. Tutti i miei ex quadri operai di quando era sindacalista dei metalmeccanici negli anni ’70 stanno nella Lega in massa. Lavorano tutti in piccole e medie fabbriche con 5/10 dipendenti (che si identificano con il padroncino che spesso è un ex-operaio dell’Alfa Romeo piuttosto che della FIAT) e vedono nella lega un sindacato di territorio che gestisce i loro interessi contrapposti immaginariamente all’immigrazione (che non è affatto un concorrente con loro o che comunque lo è molto meno di quanto venga rappresentato).

Serve a qualcosa pensare ai new-media come uno strumento di contro-cultura, di contro-informazione e di costruzione lenta e progressiva di un’egemonia dal basso da parte dei movimenti? Io sono classificato come iper-pessimista da questo punto di vista. In realtà non ho mai detto che queste forme non vadano usate o che questi canali di mobilitazione ed organizzazione siano inutili. Allo stesso tempo però non posso esimermi dal rilevare che funzionano in una logica che è un po’ da flash mob, con una capacità di mobilitazione rapida ed anche con un impatto notevole in determinate circostanze. Funzionano molto meno però nella capacità di sedimentare organizzazione, tradizione o strutture. Da questo punto di vista allora esiste un problema che è un problema forte, di costruzione di organizzazione politica e di capacità di quest’organizzazione politica di muoversi in modo non moralistico nei confronti delle forme di comunicazione. Vanno ricostruite delle forme narrative efficaci. Non possiamo pensare di entrare in competizione con i format della televisione generalista o su altri terreni dei media mainstream che si stanno ristrutturano intorno alla rete. E non possiamo non considerare Facebook, con i suoi 600 milioni di utenti e la sua capacità di veicolare la stragrande maggioranza dei video e dei testi che vengono prodotti in rete, come qualcosa di non mainstream! Senza contare che l’impresa di Zuckerberg ha la capacità di esercitare un controllo totale e verticale dei contenuti con la possibilità di escludere gli utenti quando vogliono e senza motivarlo.

Questo non è ovviamente un buon motivo per non usare i nuovi media. Certo che vanno usati! Tenendo conto però che non sono, come si è favoleggiato per anni, lo strumento dell’architettura democratica di per se. Stiamo piuttosto parlando di uno strumento di ri-selezione e ri-concentrazione del potere in forme diverse che lascia comunque spazi e margini d’azione per i movimenti. Spazi che sarebbe assolutamente idiota non usare, senza illudersi allo stesso tempo che da li passi la ricostruzione di un progetto di per se vincente senza magari mettere radici sul territorio.

I territori oggi, innervati da flussi, reti lunghe e reti corte, stanno diventando di una complessità mostruosa. Dunque la prima cosa da fare per avere una presenza, non dico egemonica ma che almeno conti dal punto di vista delle forze in campo è re-imparare a fare inchieste sul territorio per capire che cos’è, chi lo vive, chi sono i soggetti e le identità che sono in formazione sul territorio, come si interrelazionano e come si relazionano con le narrazioni pluristratificate dei media che offrono il modello di auto-rappresentazione a questi soggetti. E questo è il vero problema: se non hai un modello di rappresentazione e di auto-rappresentazione letteralmente non esisti, non ci sei come interlocutore.

Per tornare alla questione delle lotte in nord Africa da questo punto di vista abbiamo qualcosa da imparare? Sicuramente si, ma senza illuderci che quello possa essere un modello facilmente importabile nelle nostre realtà. Sicuramente però quanto è accaduto è consolante perché conferma la totale imprevedibilità dell’insorgenza. Ci sono delle soglie di rottura nei movimenti sociali oltre le quali scattano dei movimenti di massa che possono avere degli effetti anche imprevisti e molto radicali. Non dico che ci sia una capacità di prevedere perché le scienze sociali non prevedono nulla per definizione, però sta di fatto che se non esiste una cultura ed una struttura teorica in grado di far si che quando scattano le soglie di rottura ci sia qualcuno in grado di trarne un minimo di “profitto” dal punto di vista dell’egemonia politica ed ideologica, i movimenti – che si producono sul crinale di queste soglie di rottura – spariscono nel giro di pochi giorni se non di poche ore rivelandosi per quello che sono, ovvero insorgenze puramente contingenti.

Quando faccio questi discorsi i miei amici neo-operaisti mi accusano di voler rifare il partito leninista. Sarà, ma il problema dell’organizzazione politica è un problema pesantissimo e ineludibile. Questo non significa voler rifare il partito ma inventare delle forme organizzative che da un lato siano all’altezza di questa nuova realtà antropologica e sociale e da un altro delle forme narrative che sappiano trasmettere immaginario ad un livello generale.

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