Lavoro in rete e senza rete – Dialogo con Carlo Formenti – Prima parte


Come già abbiamo avuto modo di scrivere su queste pagine, se in Italia
(e non solo) esistono ancora voci capaci di trattare il fenomeno della
rete in maniera disincantata e non celebrativa ma al contempo
propositiva e non appesantita dai ceppi della tecnofobia più
reazionaria, una di esse è senz’altro quella di Carlo Formenti,
docente di teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Lecce,
collaboratore del Corriere della Sera, autore di testi importantissimi
per una lettura critica dei mutamenti economici, sociologici e politici
avvenuti a partire dall’emersione di internet come terreno di
produzione immateriale e conflitto, quali "Mercanti di Futuro"," Cybersoviet"e "Se Questa è Democrazia".

Abbiamo
avuto la possibilità di averlo con noi al seminario "Cyberpopulismi,
crisi dell’internet libertaria ed architetture di rete securitarie",
tenutosi lo scorso 20 maggio nell’ambito del ciclo di seminari Not [Net] Working – La Rete non è un Media
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, e
iniziamo con questo post la pubblicazione integrale del suo intervento.

IFF:
Nell’aprire questo dialogo vorremmo in qualche modo provare a
ricollegarci ad alcune questioni emerse tra i seminari con il gruppo di ricerca Ippolita
e quello con Raffaele Sciortino per cercare di andare ad indagare con
te quel ciclo virtuoso che si produce a cavallo tra i concetti di
linguaggio, comunità, fiducia e lavoro volontario, che di questi
ultimi tempi ha preso il nome di "Web 2.0".

Non
è certo un caso che ti proponiamo una riflessione sul linguaggio,
dato esso riveste una ruolo primario e propulsivo nei processi
produttivi delle economie più avanzate ed allo stesso tempo ha dato
vita anche alla mitologia ( che hai a più riprese esplorato e
scomposto nelle tue opere ) in merito ad una presunta democrazia
insita negli strumenti digitali ed in una supposta "natura"
intrinsecamente anarchica della rete.

Non
è raro, nel momento in cui si tende ad affrontare la questione della
creazione di valore in rete, soffermarsi su quelli che sono gli
aspetti più evidenti ma non per questo più significativi.

Ne
è un esempio l’onnipresente questione della profilazione, volta alla
cattura delle informazioni in tutti i suoi flussi, con l’obbiettivo
ultimo di estrarne insiemi di senso per riuscire a sfruttare i
mercati che proliferano nelle nicchie culturali più celate.

Nonostante
la nostra formazione tecnica ( e quindi immediatamente politica ) ci
abbia portato più volte a soffermarci su tale questione, ci sembra
che essa vada via via perdendo di interesse con gli anni. Questo
anche perché affrontando questo ambito di discussione, può capitare
di cadere in un’ottica tecnocratica, dove il materializzarsi della
distopia del grande fratello esclude automaticamente la possibilità
di qualsiasi orizzonte di liberazione.

La
profilazione della "coda lunga" ( descritta da Anderson,
direttore di Wired nell’omonimo saggio ), ci appare solo il punto di
approdo finale di un più lungo ed interessante percorso che ci ha
portato ad interrogarci su come essa si sviluppi.

Una
prima risposta che abbiamo provato a darci, e che va costruita su
diversi fronti, trova il suo fuoco nell’investimento economico,
linguistico e simbolico atto alla creazione di località di tipo
relazionale definite in spazi delimitati dai media.

Cerchiamo
di fare alcuni esempi per rendere più chiaro questo concetto e per
rilanciarti poi il volano della discussione.

Google
è un soggetto dell’attuale panorama con cui ci siamo ritrovati a
confrontarci spesso in quanto paradigma del web 2.0. Un modello di
business che oggi è di fatto reinterpretato e copiato da una
moltitudine di altre aziende che operano nel mercato dei meta-dati.
Allo stesso tempo non è difficile incappare in rappresentazioni che
tendono a dipingerlo come una piovra capace di estendere i suoi
tentacoli fra le maglie del web, fino ad incarnare il sogno di
diventare esso stesso il contenitore dell’intera Internet. Eppure
questa descrizione ci sembra inappropriata ( o forse sarebbe meglio
dire limitata ) poiché trova il suo perno
solo in alcune espressioni tecnologiche ( e senz’altro tecnocratiche
) del gigante di Mountain View ( come per esempio il famigerato page
rank).

G.
in realtà per poter sfruttare l’economia derivante dalla coda lunga
( di cui ci sembra appunto che i processi di profilazione siano
proprio gli ultimi ad essere messi in atto ) combatte la cosiddetta
"guerra degli standard".

Semplificando
al massimo questo concetto, combatte vere e proprie guerre
commerciali per fare in modo che un numero sempre maggiore di utenti
e di programmatori utilizzi e sviluppi i suoi servizi, in modo
tale che nel lungo periodo essi diventino un modello di riferimento
impossibile da non utilizzare.

Ma
quali sono le armi con cui combatte la guerra?

Certo
attira a se i cervelli migliori e fa un sapiente e dosato utilizzo
dell’open source (abbattendo così i costi ) ma gioca anche da anni
una battaglia senza quartiere sul linguaggio, diretto ed indiretto,
arrivando addirittura a creare una vera e propria filosofia aziendale
tutta incentrata sull’utente e sulle sue necessità, dando vita di
riflesso un’immagine positiva del proprio io.

I
punti salienti della sua “mission” sono esemplari:

  • La
    centralità dell’utente

  • La
    rapidità nell’accesso alle informazioni ( “Google è l’unico sito
    al mondo che vuole che gli utenti che vi attraccano lo lascino al
    più presto” ).

  • Il
    ricorso al concetto di democrazia in relazione allo stampo
    scientifico ( e quindi in una visione positivista considerata più
    "giusta" ed "equa" ) dell’indicizzazione dei contenuti prodotti dagli
    utenti e la fiducia prodotta da questo meccanismo.

  • La
    totale accessibilità e ubiquità dei servizi di Big G. ( senza
    dimenticarne ovviamente la “gratuità”)

Dal
punto di vista dell’utente questo sembra produrre una vera e propria
identificazione nella mission di Google generando così la fiducia
che sta alla base delle reti di relazione e delle comunità.

Allo
stesso modo appare altrettanto interessante il rapporto tra Big G. e
l’open source: una rapporto che è volto alla cooptazione della
metodologia di produzione del sapere delle comunità hacker la quale
viene posta a servizio del “gigante buono”, con tutta una serie
di conseguenti vantaggi che vanno dalla riduzione dei costi fino  – pure in questo caso – alla
costruzione della sua immagine positiva.

Anche
in quest’ambito G. produce delle comunità:

  • Fa
    operazioni pubblicitarie e dichiarazioni pubbliche di amore verso le
    comunità open source, dichiarandosene debitore

  • Crea
    progetti estivi come la “Summer of code” dove premia con qualche migliaio di
    dollari i migliori programmatori in grado di apportare modifiche
    importanti ai suoi progetti

  • Offre
    strumenti tecnici di alto livello per la creazione di software come
    librerie condivise ed utilizzabili gratuitamente

  • Finanzia
    progetti open source

  • Gioca
    sull’immagine estrosa, liberatoria, geniale ed allo stesso tempo
    altamente professionale che il software a codice aperto ha creato
    negli anni.

Si tratta di altri elementi che portano ad un’identificazione di vasti strati delle comunità
open source nella mission aziendale di Google, il quale si ritrova a
poter disporre di schiere di cervelli motivati che lavorano spesso in
modo gratuito, non facendo quindi più ricorso agli strumenti
fordisti tipici di asservimento della forza lavoro ma mettendo in
atto la cooptazione della creatività collettiva che si sviluppa
nelle comunità che ha attirato a se.

Si
verifica così una vera e propria compenetrazione fra gli obbiettivi
vitali del singolo e gli obbiettivi aziendali.

La
profilazione in tutto questo arriva in un momento successivo ed è
resa possibile dopo che si è dato vita ad un’operazione di
linguaggio, reiterata negli anni, che ha creato quell’immaginario di
fiducia tale da rendere possibile un’estesa e sedimentata economia
relazionale.

Molte
altre aziende rincorrono dinamiche simili. Ne sono esempio gli
aggregatori della blogosfera, come l’italiano Liquida.it

A
questo proposito esiste una significativa intervista, rilasciata a “Salva
con Nome” da uno dei personaggi di rifermento dell’azienda, in una
puntata che non a caso aveva come tema centrale il concetto di
“prosumer”, ovvero del produttore consumatore di informazioni.

Anche qui è interessante notare come in una miscela di linguaggio geek,
brillante, smart, tutto infarcito di termini “open sourceggianti”,
l’accento venga posto su un concetto particolare, ovvero sul fatto
che Liquida ( figlia della Banzai SPA, una delle più grandi agenzia
di advertising on line in Italia ) non sia un semplice aggregatore,
quanto piuttosto una "valorizzatore di contenuti", il cui
scopo è far emergere il sapere e le conoscenze di qualità che
vengono prodotte dagli utenti della blogosfera.

Inoltre
se diamo uno sguardo alla mission di Liquida.it noteremo
non poche somiglianze con quella di Google, come per esempio il
richiamo a termini come "democrazia" e
"meritocrazia", conclamati come elementi inscritti nel DNA
stesso dell’azienda.

Sappiamo
invece che la realtà è ben diversa, essendo che Liquida si propone
sostanzialmente di aggregare il numero più ampio possibile di
contenuti ed articoli disponibili nella blogosfera italiana, in modo
tale da accumulare backlink, scavalcare nel ranking i siti da cui
le vengono forniti i contenuti e trarre quindi vantaggio in termini
monetari dagli strumenti di pubblicità mirata proposti proprio dai
motori di ricerca.


Formenti: Il
meccanismo che abbiamo visto in atto negli ultimi decenni, se lo
analizziamo dal punto di vista della storia del modo di produzione
capitalistico, è in realtà vecchissimo. Ha un solo elemento di
effettiva novità: la sua mostruosa accelerazione temporale.

Un
famoso antropologo ungherese dell’economia, Karl Polanyi,
relativamente poco apprezzato in campo marxista perché considerato
"eretico", ha il merito di aver descritto la storia del
capitalismo come un’alternanza di fasi di desocializzazione e
risocializzazione. Polanyi smonta in profondità l’ideologia del mercato
capitalistico come "natura", cioè come un insieme di
relazioni sociali naturali, a partire da un’analisi concreta di come,
nell’Inghilterra di fine ‘600 e inizio ‘700, si sono create le
condizioni di un mercato del lavoro capitalistico attraverso il
sistema delle "enclosure".

La
classe operaia inglese si è formata attraverso un processo politico,
grazie al fatto cioè che la corona ha permesso l’espropriazione dei
commons e delle proprietà demaniali delle comunità di contea da
parte dei landlords.

Dove
prima c’era una società feudale in cui non esisteva la proprietà
della terra in senso moderno – i feudatari non erano proprietari ma
funzionari della corona che affidava loro la gestione del territorio –
si procede all’espropriazione delle terre comuni per sradicare l’
economia agricola di sussistenza non fondata sul mercato. In tempi
brevissimi la terra diventa proprietà privata e le famiglie
contadine, private della possibilità di sopravvivere coltivando
piccoli appezzamenti, sono costrette a vendere la propria forza
lavoro, lavorando come braccianti nei nuovi fondi che si trasformano
in vere e proprie imprese capitalistiche .

Quello
che ho appena descritto è un caso particolare di un processo che si
ripete ciclicamente in tutta la storia del capitalismo: il mercato
nasce come una sorta di "escrescenza" generata dal potere
politico che distrugge le economie tradizionali di sussistenza.

Tuttavia
non le distrugge mai completamente: in primo luogo perché esistono
sempre dei residui. Uno di questi (che ha accompagnato tutta la
storia del capitalismo, e che tutt’ora esiste in determinate
condizioni regionali ) è per esempio il lavoro riproduttivo delle
donne, il quale resta fuori dal ciclo di produzione capitalistico
finché non viene distrutta la famiglia nucleare borghese, per cui
tutta una serie di servizi destinati alle persone, che venivano in
precedenza erogati grazie al lavoro gratuito delle donne, vengono
esteriorizzati e diventano merci.

Si
tratta di un processo che continuamente vede i "commons",
prodotto di meccanismi di aggregazione sociale anteriori al
capitalismo, finire assorbiti dalla sfera del mercato attraverso
processi di individualizzazione, frammentazione e mercatizzazione.

I
cicli storici all’interno di cui si generano queste dinamiche sono
cicli di lungo periodo.

Quello
che è successo con la rivoluzione digitale ( cioè con la
trasformazione del computer da strumento di elaborazione dei dati e
di gestione delle grandi amministrazioni a mezzo di comunicazione,
con lo sviluppo della rete e con la popolarizzazione di queste
tecnologie che si è determinata con l’avvento del web all’inizio
degli anni ’90) è stato un processo estremamente veloce, nel senso
che in questo caso la mercatizzazione di funzioni vitali, di
relazioni sociali non sottoposte al mercato è avvenuta con una
rapidità spaventosa.

Ovviamente
il processo è stato favorito e accompagnato anche in questo caso da
interventi politici massicci, come la deregulation dei mercati
finanziari avviata dal governo Tatcher in Inghilterra e
dall’amministrazione Regan negli Stati Uniti, come la
deregolamentazione dei media, come lo smantellamento progressivo del
welfare state e la conseguente privatizzazione dei servizi sociali
(che in precedenza erano stati trasferiti dalla famiglia allo stato
nell’ambito di una contrattazione tra lavoratori,classe borghese e
stato).

Le
reti di computer consentono di aumentare massicciamente la
produttività anche di questo tipo di servizi, creando le condizioni
di sviluppo di un terziario avanzato, che a partire dalla fine degli
anni ’70 e dall’inizio degli anni ’80 cresce a ritmi molto rapidi.

Il
terzo grande processo di ristrutturazione capitalistica favorito da
interventi politici, prima nei paesi anglosassoni e poi nel resto dei
paesi sviluppati dell’occidente , è il processo di decentramento
produttivo.

Parlare
di fabbrica a rete o di impresa a rete, come fa Castells, è ormai
del tutto insufficiente, poiché sta succedendo qualcosa di molto più
radicale.

Oggi
le imprese sono marchi che "galleggiano" sulla produzione
sociale e che non hanno più alcuna necessità di organizzare il
processo produttivo all’interno della fabbrica, nemmeno della
fabbrica a rete. Lo fanno ancora ovviamente, ma con una riduzione
sempre più drastica degli strati di forza lavoro con cui
intrattengono un rapporto normato e contrattualizzato.

Ricapitolando,
possiamo indicare le origini del ciclo di cui stiamo parlando in 3
diversi momenti:

  • Smantellamento
    della classe operaia fordista,

  • Decentramento
    produttivo

  • Possibilità
    di gestione efficiente da parte delle nuove tecnologie di processi
    produttivi distribuiti – sia di tipo tradizionale che di tipo
    innovativo. Grazie all’avvento del web quest’ultimo processo subisce
    un accelerazione formidabile, nella misura in cui mette al lavoro le
    comunità virtuali sfruttando la creatività di milioni di persone
    che non necessitano più di elevate competenze tecniche ( come
    invece avveniva all’epoca delle BBS o di Usenet ).

Ma
torniamo al discorso iniziale, ovvero alla descrizione di come il
capitale subordina e distrugge i commons attraverso processi
politici.

Questo
meccanismo non è stato inventato dalle dot-com o dal capitalismo di
internet, il quale è piuttosto intervenuto solo dopo che la
socialità in rete aveva creato le comunità virtuali in quanto forme
di aggregazione sociale spontanee.

Questi
meccanismi di aggregazione, nella loro fase iniziale, erano
fortemente connotati da un punto di vista contro-culturale ed
ideologico in quanto avevano come protagonisti gli hacker e i
comitati di ingegneri che hanno creato Internet.

Il
mio lavoro sui "Cybersoviet" è nato da questa idea:
studiando come funzionavano le procedure decisionali all’interno dei
comitati di hacker ed ingegneri che costruivano dal basso le
tecnologie di rete, ho notato che c’erano forti analogie con il
meccanismo decisionale della democrazia partecipativa e diretta
sviluppato da alcune esperienze storiche del movimento operaio, per
esempio il fatto che le decisioni non venivano prese non a colpi di
maggioranza ma discutendo fino a raggiungere una sostanziale
unanimità, oppure il fatto la comunità dei pari sceglie i suoi
leader carismatici ma li considera revocabili in qualsiasi momento e
non attribuisce loro alcuna delega.

Questo
meccanismo, non appena si è passati dalla dimensione di avanguardia
e contro-culturale delle prime comunità alla dimensione di massa, è
stato in parte neutralizzato, ma conserva interesse in quanto esempio
di aggregazione sociale spontanea ed autonoma.

E
questo vale in parte anche per le comunità dei “fan” ( di un
particolare prodotto, di un software, di un serial tv, di un genere
musicale, di un film o di un videogioco ) descritte da un autore come
Jenkins, che si appropriano dei prodotti dell’industria culturale e
li riciclano dentro processi comunitari spontanei di socializzazione
più o meno alternativi.

Come
si appropria il capitale di queste comunità? Come le trasforma in
serbatoio di lavoro gratuito? Come trasforma questi meccanismi da
forme di aggregazione spontanea a dispositivi di accumulazione
capitalistica?

Il
problema vero è da dove arrivano i quattrini. Wikipedia non fa un
euro di profitti. Un motore di ricerca come Google all’inizio non
aveva nessun modello di business mentre società come Amazon ed eBay
hanno a loro volta dovuto penare a lungo prima di realizzare un
utile. E allora? Allora occorre fare i conti quei meccanismi
economici che sono ormai davanti agli occhi di tutti grazie
all’attuale crisi finanziaria (ma che si erano già manifestati nel
2000-2001 in occasione della bolla speculativa delle dot-com).

I
nodo centrale è il processo di finanziarizzazione subito dal
capitale globale negli ultimi decenni.

Per
generare il profitto industriale dovrebbe valere ancora la legge del
valore-lavoro di Marx, il quale tuttavia aveva già intuito, nei
Grundrisse, che raggiunto un certo livello di sviluppo del general
intellect e la legge non avrebbe più potuto funzionare. Nella misura
in cui il sapere collettivo diventa direttamente produttivo di valore
quest’ultimo non può più essere misurato dalle leggi del mercato.

L’unica
possibilità diventa quella di un’appropriazione diretta della
produttività del lavoro sociale per via politica. Quando l’oggetto
principale delle transazioni economiche sono idee, conoscenze ed
informazioni "l’economia della scarsità", come è stato
spiegato dagli stessi autori neoliberali alla Benkler, non funziona più. E allora si
crea scarsità artificiale attraverso meccanismi giuridici come la
proprietà intellettuale o attraverso delle dinamiche monopolistiche
di controllo di tecnologie.
I nuovi modelli di
business sono incarnati da imprese come Google, che ha acquisito una
capacità di controllo monopolistico sul mercato dell’advertising e
che non produce nulla dal punto di vista della produzione
capitalistica tradizionale industriale ma vende i propri utenti agli
inserzionisti pubblicitari.

Esiste
un meccanismo duplice meccanismo che si fonda, da un lato,
sull’appropriazione politica attraverso la creazione di scarsità
artificiale (per esempio grazie alle leggi sulla proprietà
intellettuale), dall’altro lato , sui processi di
finanziarizzazione.
Oggi vediamo come persino da destra (vedi
Tremonti) si levano voci contro gli eccessi della finanza
"creativa", voci che invocano il ritorno all’economia
reale, ma la verità è che la finanziarizzazione, anche nei suoi
aspetti più estremi, non è speculazione né parassitismo. Non ha
senso fare distinzioni tra un capitalismo buono e vecchio, che
produceva beni materiali, ed un neocapitalismo cattivo e speculativo
che è quello finanziario. Il capitalismo vive di profitto e non è
interessato a come lo ottiene: per Marx il lavoro produttivo non è
quello materiale ma è quello che produce plusvalore. Quindi se il
plusvalore arriva da processi finanziari allora il capitale investe
nel settore finanziario.
Come funzionava il meccanismo della Net
Economy? Qualche anno fa ho pubblicato per Einaudi un libro che si
chiama "Mercanti di Futuro" nel quale raccontavo come la
New Economy non fosse nient’altro che la vendita di aspettative su
profitti futuri. Perché il valore delle azioni era di 10-100-1000
volte superiore al valore degli asset reali di un’impresa? Perché
veniva venduta la produttività del lavoro sociale, non già di
quell’azienda ma delle comunità di cui quell’azienda riusciva ad
appropriarsi e su cui riusciva a imporre il proprio marchio. È un
capitale che scommette sui profitti futuri. I venture capitalist che
investivano nella Net economy sapevano benissimo che su 100 imprese
che imprese che finanziavano, almeno 99 sarebbero fallite perché non
avevano alcun modello di business e che non si sarebbero mai rette
sulle loro gambe.Ma se anche una sola di queste imprese fosse
riuscita ad appropriarsi del lavoro sociale di una comunità avrebbe
ripagato del fallimento di tutte le altre, perché avrebbe potuto
esordire sul mercato borsistico raggiungendo valori stratosferici in
tempi brevissimi e regalando quindi denaro liquido alle imprese che,
a quel punto, avrebbero avuto la possibilità di aumentare i propri
investimenti. Il punto non è crescere come le imprese della vecchia
economia: Google ha solo 20000 dipendenti ma ha una capacità di
capitalizzazione maggiore di Ibm e Microsoft che ne hanno molti di
più. Il punto è quante e quali reti, quanto capitale sociale,
riesci ad egemonizzare e a mobilitare per creare valore sfruttando il
lavoro gratuito di milioni di persone. Tutto il resto è una
questione di marketing, di conflitti tra marchi e di concorrenza tra
imprese.

Badate
che anche dentro la politica c’è questo problema di appropriazione e
delle difficoltà che essa incontra. In questo momento sto
coordinando una ricerca sull’uso di FaceBook in Puglia per le elezioni
amministrative, ed i maldestri tentativi dei politici di utilizzare
una piattaforma stressandola come media broadcast sono estremamente
divertenti. Facebook è il luogo delle chiacchiere quindi passi dalla
spettacolarizzazione alla personalizzazione, e per far funzionare
quest’ultima devi interagire davvero con i gruppi di persone con cui
crei le tue reti relazionali. La classe politica non ci riesce e
quindi cosa fa? Paga delle persone a cui è delegato il lavoro di
interazione ed ogni tanto fa figure pessime perché non riescono ad
usare lo strumento secondo i suoi principi di socialità spontanea.

Tornando però al discorso sui nuovi meccanismi di appropriazione
capitalistica, si tratta di capire se e quali conflitti nascano fra
pratiche e comportamenti dell’utenza e dinamiche di sfruttamento
commerciale. Contrariamente a quanto pensano i post-operaisti, io non
credo che tutti i comportamenti conflittuali siano espressione
dell’antagonismo delle moltitudini. Il fatto che milioni di persone
scarichino illegalmente file mp3 non ha nulla, a mio parere, di
particolarmente antagonistico. Ciò non toglie che tali comportamenti
generino un attrito forte con alcuni settori di mercato fino a
determinarne – come sta succedendo all’industria del cd – la rovina.
Esiste però tutta una serie di modelli capitalistici innovativi che
possono funzionare tranquillamente senza copyright.

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